Le 10 opere migliori del concorso

UNA GONDOLA IN VIAGGIO

Barbara Biagioli

“Je connais des bateaux qui restent dans le port De peur que les courants les entraînent trop fort, 

Je connais des bateaux qui rouillent dans le port A ne jamais risquer une voile au de hors.” 

Jacques Brel 

“Je connais des bateaux” 

“Uffa! Come sono stufa! Tutti i giorni sempre uguale, su e giù per i canali, avanti e indietro tra un isoletta e l’altra. Calpestata continuamente da persone diverse che lasciano cartacce, sporcandomi tutta. Turisti che salgono senza salutare, tutti presi dalle loro foto senza però godere della bellezza che questa magica città offre. Sentire le solite chiacchiere di circostanza; ci sarà qualcos’altro oltre questi canali, oltre questa vita.” 

Questi,  erano i pensieri di Gondi da qualche giorno; ma quella mattina erano più forti del solito e lei sentiva una strana agitazione muoversi fin dentro ogni nodo del suo legno. 

In realtà era un giorno come tutti gli altri, era estate e il sole stava sorgendo; lei era già pronta e pulita  per  accogliere nuovi visitatori. Il suo gondoliere era un uomo non più tanto giovane e la mattina si alzava presto per fare le cose con calma. 

Passarono per il porto che iniziava a svegliarsi; i motori delle grandi navi da carico erano accessi e pronti per salpare, nei cantieri navali già si lavorava a pieno regime e giovani cadetti della Marina Militare iniziavano l’addestramento. Il porto era un luogo pieno di vita, di storie e  persone di ogni genere e razza; viaggiatori, artisti, commercianti e trafficanti, ma Gondi era stanca, stanca di quella puzza di cherosene e pesce, di cime bagnate e lasciate sotto il sole, dell’odore degli uomini che lavoravano. 

Quella notte ci fu una terribile mareggiata, alcune imbarcazioni affondarono, altre furono gravemente danneggiate e in tutto quel trambusto la cima di Gondi si stacco dalla banchina e lei fu trascinata via dal mare in tempesta.  

Spinta sempre più lontano dal mare, Gondi vide il porto diventare sempre più piccola, le enormi onde infrangersi sulla banchina; il vento era molto forte, lei fu sballottolata violentemente in balia del mare, aveva un enorme paura di finire ribaltata. 

La piccola gondola non sapeva quanto tempo fosse durata la tempesta, ne la direzione in cui l’aveva spinta la corrente; ora però il mare era calmo, tirava una leggera brezza, era quasi mattina e intorno si vedeva solo acqua. 

“Povera me! Mi sono allontanata troppo, ed ora come farò ad affrontare il mare io che sono solo una piccola gondola.” pensava Gondi . 

Navigò e navigò, raramente incontrò altre imbarcazioni, se non navi da carico e grandi petroliere; quando nel suo “dolce navigar” vide una nave da crociera e le si avvicinò: “ Scusami, ciao sono Gondi, potresti dirmi dove stai andando e quanto manca alla terra?” chiese la gondola un po’ imbarazzata. 

La nave, dal suo alto le rispose che si stava dirigendo verso Gibilterra e che ci sarebbero voluti ancora alcuni giorni per arrivare. La piccola gondola ringraziò e si allontanò. 

Quella notte guardando il cielo limpido e stellato, Gondi si sentì piena di vita, libera. Un branco di delfini le si avvicinò e iniziarono a giocare. 

Alle prime luci dell’alba, vide all’orizzonte la terra: “eccola! Finalmente Gibilterra!” urlò Gondi con voce emozionata. 

La costa si faceva sempre più vicina, si poteva vedere il faro; che segnalava il varco tra il mar Mediterraneo e l’oceano Atlantico, dove il  fondale marino era altissimo. Gondi sapeva queste cose perché lo aveva sentito raccontare da un turista che era tornato da un viaggio, mentre era ormeggiata a Piazza San Marco. 

Finalmente raggiunse il porto; era una baia enorme, almeno così sembrò alla piccola gondola, che in confronto alle grandi navi militari si sentiva una formica. Trovò un posticino tranquillo, dove non rischiava di rimanere schiacciata, ma da dove poteva vedere la vita del porto, infondo era lì per scappare dalla sua routine. 

Era tutto così nuovo e molto più frenetico del suo porto; navi da carico che scaricavano enormi container, navi da crociera che sembravano condomini galleggianti e soprattutto c’era tutta la flotta della Royal Navy; occhiello della marina britannica. Gondi era incredula, la sua gioia era immensa, quella sera sotto quel nuovo cielo, dormì serena. 

La mattina successiva, decise di andare un po’ in esplorazione, senza però allontanarsi troppo, quando vide spuntare dall’acqua una specie di tubo, all’inizio non capì bene cosa fosse, ma dopo qualche secondo vide che era il periscopio di un sottomarino. Gondi incuriosita si avvicinò per osservarlo, non ne aveva mai visto uno così da vicino, ne aveva solo sentito parlare. 

“Ferma! Non avvicinarti! Chi sei?” le intimò il sottomarino, Gondi si congelò all’istante, ogni doga tremava; rispose con un filo di voce in falsetto dichiarando le sue generalità e rimase in attesa di una risposta. 

Il sottomarino, ricevuto il via libera dalla camera di manovra, si rilassò e guardando quella piccola e strana imbarcazione di legno, con fare pacifico, chiese incuriosito cosa ci facesse lì e da dove venisse. Gondi ripresa dallo spavento iniziale e ancora un po’ scossa si avvicinò al gigante: 

“ Ciao mi chiamo Gondi e vengo da Venezia, sono scappata durante una mareggiata perché ero stanca del mio porto e volevo vedere il mondo.” 

I due iniziarono una fitta conversazione; raccontandosi le rispettive vite. Gondi raccontò al sottomarino di come le piacesse navigare lungo i canali di Venezia di notte, sotto il cielo stellato, cullata dolcemente dal suo gondoliere esperto. Il nuovo amico di contro le parlò dei magnifici fondali, dove la luce del sole non arriva più e dove vivono dei pesci stranissimi che emettevano luce; Gondi ascoltava affascinata i suoi racconti, aveva tante storie da raccontare; una volta aveva rischiato di essere abbattuto da un siluro nemico, ma per fortuna il suo umano era stato veloce nella manovra e aveva evitato il missile. 

Parlarono quasi tutta la notte, quando fu quasi l’alba i due si salutarono, il sottomarino doveva ripartire: 

“ E’ stato un piacere conoscerti, questa sarà di sicuro una delle storie che racconterò tornata a casa. Fai buon viaggio amico mio!” lo salutò Gondi dandogli una leggera bottarella sul periscopio. 

“Grazie amica mia, ora anche io avrò qualcosa di nuovo da raccontare, non capita spesso di incontrare una gondola in mezzo all’oceano Atlantico, buon viaggio” 

Gondi rimase a Gibilterra ancora qualche giorno, giusto il tempo di decidere la sua prossima meta. 

La piccola imbarcazione decise di proseguire lungo la costa del Portogallo, per poi fare rotta verso nord. 

 Uscita dal canale, rimase dietro una nave da crociera che si stava dirigendo in Norvegia, le restò a debita distanza per non essere travolta dalle sue onde e lontana dalla costa per paura che la corrente la spingesse contro gli scogli sporgenti. A parte queste accortezze il mare era calmo e c’era un sole tiepido: 

“Non posso crederci sto veramente navigando nell’oceano, lo sto facendo sul serio!” Gondi era piena di gioia e orgoglio per se stessa. 

Il paesaggio era tutto simile, le coste scogliose, la vegetazione era piuttosto aspra e rada, non c’era molto verde; non aveva incontrato neanche molta gente, solo ancorate nelle cale, barche a vela e yacht . Bambini che facevano il bagno e giocavano con i loro canotti colorati gridando e schizzando. 

Verso le prime ore del pomeriggio la piccola gondola si fermò in una baia per riposare , mancava ancora un po’ prima di arrivare a Finisterrre. 

L’acqua era trasparente, si poteva vedere il fondo, era pieno di pesciolini, alghe e scogli. Era tranquillizzante tutta quella calma intorno, nessun rumore, il venticello leggero che rendeva il calore del sole tiepido, il dolce dondolio delle onde, fecero addormentare la gondola 

Ci mise un paio di giorni prima di arrivare alla meta prefissata: arrivò a Finisterre la sera del terzo giorno, stanca decise di fermarsi al porto e riposare; la mattina successiva avrebbe dato un’occhiata in giro. 

Svegliata di buon ora e riposata, Gondi decise di guardarsi un po’ intorno. Certo non era come il porto di Gibilterra; qui non c’erano le grandi navi,  ne tutta l’ agitazione che girava nei grandi porti, c’erano solo barche piccole di legno tipo gozzi per la pesca. 

Vide delle persone che camminavano con degli zaini molto grandi e che appena arrivati sulla sabbia si buttavano in mare. Incuriosita si avvicinò ad una piccola barchetta che stava lì senza apparentemente senza fare nulla e chiese perché quelli umani si comportavano cosi. 

Il gozzo si presentò e con fare da professore in pensione spiegò alla gondola che quelle persone stavano facendo un pellegrinaggio, il famoso cammino di Santiago. 

Pellegrini di tutto il mondo facevano quel cammino, che parte da un paesino della Francia e arriva a Santiago de Compostela; Finisterre è l’ultima meta. Arrivati qui la tradizione dice che bisogna bruciare i vestiti con cui si è arrivati, fare un bagno e raccogliere una conchiglia, la famosa Capasanta; simbolo del cammino e testimonianza che il pellegrinaggio era avvenuto. 

Gondi ascoltava incantata questi racconti e pensò a quanto mondo si era persa restando ferma nel suo porto. Era felice di vedere tanta vita intorno a sé; questi pellegrini, sentiva la loro emozione e la fatica, vedeva la gioia quando arrivati sulla spiaggia si levavano  lo zaino e  si buttavano nell’oceano; molti avevano percorso più di 800 km; chissà cosa li aveva portati a fare quel viaggio. 

Rimase a Finisterre per qualche giorno prima di affrontare l’oceano aperto e dirigersi verso la Groenlandia pensò anche di rinforzare tutta la sua struttura con delle doghe di legno nuove più resistenti.

La sera prima della partenza, la piccola gondola non riusciva a prendere sonno; troppo nervosa e anche un po’ spaventata. Fece sogni turbolenti e terribili; sognò di tempeste e onde grandi come grattacieli, lei veniva trascinata dall’oceano senza nessun controllo. Alle prime luci dell’alba si svegliò.

Gondi si guardò intorno; tutto era tranquillo, non c’erano pellegrini sul sentiero, si sentiva solo il cinguettare dei primi uccellini. La piccola gondola rimase lì, ancora qualche istante, come se volesse prendere coraggio e salutare la terra ferma. Dopo circa quindici minuti, si diede una scossa, prese un lungo respiro, staccò la cima e partì, pronta a raggiungere la Groenlandia.

Mentre si allontanava dalla costa  e la vedeva sempre più piccola all’orizzonte, fu presa dal terrore: “ Oddio, che mi ha detto la testa, devo essere pazza per pensare di poter attraversare l’oceano? Non riuscirò a farcela…”

Duemila domande iniziarono a vorticarle in testa, ma ormai era tardi per tornare indietro. Navigò e navigò; il tempo non aveva più valore e forse neanche lo spazio. La gondola vedeva solo acqua ovunque volgesse lo sguardo e intorno non c’era nessuno, era completamente sola in mezzo all’oceano Atlantico.

Il giorno scorreva più o meno velocemente, le era capitato di incontrare le enormi balene, che gentilmente le avevano offerto un passaggio, ma oltre agli abitanti marini aveva visto pochissime imbarcazioni, giusto qualche mercantile e petroliere

La notte invece, sembrava non passare mai; ogni tanto immersa nel buio, con solo le stelle e la luna a farle compagnia, Gondi ripensava alla sua casa al suo porto. Le mancavano gli odori della laguna, le risate dei turisti che passeggiavano sul Ponte dei Sospiri, le voci dei gondolieri; la notte portava malinconia.

Gondi non sapeva ancora quanto mancasse per raggiungere la costa della Groenlandia, né da quanto tempo stava viaggiando, ma le sue doghe anche se nuove, iniziavano a risentire della bassa temperatura dell’acqua e non sapeva quanto ancora avrebbero retto.

Una mattina,  ancora mezza assonnata, vide all’orizzonte la linea inconfondibile della terra: “Terra! Terra!” urlò con tutto il fiato che aveva in gola, non sapeva se ridere o mettersi a piangere per l’enorme impresa che era riuscita a superare, malgrado tutto. “ Non posso crederci, io una piccola gondola, sono riuscita ad attraversare l’oceano!”.

 Arrivare al porto di Nanortalik, non fu un’impresa facile; era pieno di ghiaccio, l’acqua era gelata e le doghe si stavano congelando e scricchiolavano ad ogni movimento. Gondi aveva paura che anche il timone potesse congelarsi e non avrebbe più avuto modo di governare la gondola. Riuscì a raggiungere la riva, ma era ridotta molto male.

Il piccolo porto si trovava all’interno di un fiordo non molto grande, le barche ormeggiate erano principalmente da pesca per il merluzzo e per gamberetti, la costa era frastagliata, rocciosa e con poca vegetazione, sullo sfondo spiccava la vetta di una montagna e sul fondo il piccolo villaggio con case basse e molto colorate. Gondi si trascinò più che potè sulla riva e stanca morta crollò in un sonno profondo.

Si svegliò dopo parecchie ore, almeno da quello che vedeva intorno, si era fatto buio c’erano solo alcune luci provenienti delle case, Gondi non sapeva bene cosa fare e come poter aggiustare i danni riportati, così decise di rimettersi a dormire e il giorno seguente avrebbe chiesto informazioni a qualche peschereccio.

Era da poco spuntata l’alba, quando Gondi aprì gli occhi; era dolorante a causa delle ferite riportate, goffamente cercò di rientrare in acqua. In quel momento passava una vecchio peschereccio e vedendo quella strana imbarcazione si fermò:

” Salve, mi chiamo Oscar. Non sei di queste parti vero? e che cosa sei? Non mi sembri una barca da pesca o da carico…”

” Piacere, mi chiamo Gondi e vengo dall’Italia più precisamente da Venezia. Sono ridotta molto male e avrei bisogno di riparazioni urgenti, puoi aiutarmi?” rispose Gondi felice di aver trovato aiuto.

Il vecchio Oscar pensò qualche secondo, poi le disse che conosceva una rimessa dove avrebbero potuto aiutarla e si offrì di trainarla.

Oscar le fece molte domande era curioso; Gondi raccontò il suo incredibile viaggio, di come era partita da Venezia ed aveva attraversato l’oceano. Arrivati al cantiere i due si salutarono augurandosi buona fortuna.

Ci volle circa una settimana per riparare tutti i danni,  perché nessuno aveva mai visto una barca simile e non sapevano bene come aggiustarla. Uscita dalla rimessa Gondi tornò dove aveva incontrato Oscar,  ma non trovandolo si mise a curiosare intorno; tutto le sembrava immobile, quando senti una voce che la salutava: ” Ciao, e tu chi sei?” Gondi si girò e vide una piccola barca, le due iniziarono una fitta conversazione che durò circa 3 ore. Julie così si chiamava la nuova amica le raccontò che in quella zona della Groenlandia tra agosto e ottobre avrebbe potuto ammirare la spettacolare aurora boreale; Gondi le chiese informazioni su una strana imbarcazione di cui aveva sentito parlare a Venezia che si chiamava Kayak. Julie le spiegò che oramai quelle barche non esistevano più, erano state soppiantate da nuovi scafi, si potevano solo vedere in un museo, però si ricordava che nel fiordo vicino ne esisteva ancora una che ancora in vita.

Gondi rimase qualche giorno per riposare, si godette quel posto meraviglioso, tutto era calmo e silenzioso; c’erano pochi esseri umani perche le temperature erano decisamente troppo fredde e una notte vide la famosa aurora boreale. Rimase senza fiato, se avesse avuto occhi molto probabilmente avrebbe pianto per la fortissima emozione, era grata per tutto questo.

Nei giorni seguenti apprese che il fiordo vicino, era il porto di Nuut e che avrebbe trovato lì quel vecchio kayak.

Arrivata, iniziò subito a chiedere informazioni in giro fin quando non trovò la rimessa dove viveva quella vecchia barca. Bussò: ” Permesso, salve mi chiamo Gondi ” si presentò con voce timida.

Le rispose una voce rauca e scontrosa: ” Non ho bisogno di nulla, vattene via!.”

Gondi lì per lì ebbe un momento di esitazione, ma era decisa ad incontrarlo e dopo circa due ore di attesa il vecchio mollo la presa e la fece entrare.

“Salve sono Wess, allora cosa è venuta a fare?” bofonchiò palesemente scocciato da quella visita.

Non sapendo bene come rispondere, la piccola gondola si trovò per un attimo in difficoltà, quindi preso coraggio pensò che iniziando a raccontare la sua storia forse lo scontroso kayak si sarebbe fidato.

Così fu, Wess preso dal racconto, iniziò a farle tante domande; era curioso di quella strana imbarcazione, giurava che in 90 anni di vita non aveva mai visto nulla di simile.

Lui si confidò, dicendogli che aveva avuto una moglie, era stata l’unica Umiack che avesse mai amato: ” Un tempo noi barche aiutavamo l’uomo sia nella pesca che nella vita quotidiana, noi kayak eravamo fatti per la pesca quindi dovevamo essere lunghe e veloci; le donne invece Umiak erano più panciute e più spaziose in modo da far entrare anche i bambini della famiglia.  Purtroppo il tempo passa, gli esseri umani fanno sempre nuove scoperte e costruiscono barche sempre più pratiche e veloci; così la mia Umiack diventò un pezzo da esporre al museo.”

Gondi dopo tutto quel parlare iniziava ad essere stanca e visto che non aveva un posto dove passare la notte il vecchio fu lieto di accoglierla, infondo era bello avere un po’ di compagnia.

La gondola rimase qualche settimana a Nuut e Wess fu felice di fargli da cicerone e mostrargli tutte le meraviglie di quella magica isola. Era quasi arrivata la primavera e Gondi iniziava a sentire la mancanza del suo porto, così decise che era ora di tornare a casa.

Il vecchio kayak le regalò delle pelli di tricheco, dicendole di avvolgersi in modo da rimanere isolata dall’acqua gelata. Gondi aveva il cuore a prua, era emozionata e triste allo stesso tempo, era grata per tutto l’aiuto ricevuto; salutò Wess che si commosse e senza guardarsi indietro usci dalla rimessa.

Tornò a Nanortalik, dove ebbe la fortuna di rincontrare Julie che con molta gioia l’aiutò nei preparativi per la partenza. Julie conosceva una nave da carico e sapeva che in questi giorni sarebbe stata al porto per poi fare rotta verso la Sardegna: ” Gondi mi è venuta un’idea, potresti imbarcarti all’interno di un container così la mia amica potrebbe darti un passaggio che ne pensi?”

Gondi non ci pensò su due volte e ringraziando la sua amica si diressero insieme al porto per mettere  a punto le ultime cose, sarebbe partita l’indomani all’alba.

Quella fu l’ultima notte che Gondi passava non solo in Groenlandia, ma l’ultima del suo incredibile viaggio durato quasi più di un anno. La piccola gondola pensò a tutte le avventure che aveva passato a tutte le barche che aveva incontrato lungo la sua strada, a tutte le storie che aveva sentito ed era contenta di tornare a casa e portare con sé tutti quei racconti. Pensò che narrando  di posti lontani, di barche diverse, barche sparite, barche da guerra , barche che facevano da postini,barche che portavano umani; tutte storie diverse per ognuna di loro. Gondi era convinta che se raccontava, se faceva conoscere altre storie le distanze non avrebbero diviso ma unito.

Gondi ci mise 4 mesi a raggiungere la Sardegna. Si svegliò una mattina di autunno, nel suo porto pronta per accogliere nuovi turisti , sentire nuove storie e chissà, forse da qualche parte nell’oceano qualcuno raccontava la sua storia.

 

 

SYMI

Mauro Valentini

19 agosto 1993

Era scesa dal terzo piano di corsa a piedi, che l’ascensore era sempre occupato. Si era precipitata come al solito fuori dal portone come una furia, perennemente in ritardo. Anche quella mattina. Come al solito. E con quella furia e tutta trafelata aveva intrecciato la sua borsa a tracolla con quella della signora Bretodeau, che a quell’ora già rientrava dal suo giro mattutino al mercato. La signora era riuscita a tenerla ma lei no e le era caduta, rovesciando tutto il contenuto. Aveva maledetto tra i denti quell’ulteriore contrattempo che le avrebbe fatto far tardi al lavoro e si era chinata in fretta a raccogliere le cose che erano cadute nello scontro, incurante delle proteste di quella vecchia insopportabile. E così, da quella posizione accucciata e con il tumulto di una gatta in fuga, lo aveva visto. Si era immobilizzata a guardarlo, appoggiato sul cofano di una Renault 12 color arancio così vecchia che, per ricordarne una simile, era dovuta ricorrere a una rapidissima perlustrazione nella pagina dei ricordi d’infanzia. E l’aveva ritrovata a fatica, uguale com’era all’auto di suo zio Francois, più di trent’anni fa.

Lui le aveva sorriso dolcemente e subito aveva preso dal cruscotto un mazzetto di gerbere bianche, facendo un passo verso di lei. Un passo soltanto. Le avrebbe detto poi: «Volevo lasciarti la possibilità di far finta di non conoscermi e di andare via senza salutarmi. Avresti potuto farlo.» Già, avrebbe potuto. Ma non lo aveva fatto…

Si erano conosciuti due anni prima. Un’estate, quella del 1991, passata alla storia per il “putsch di agosto” contro Gorbaciov, e nella mente di Sophie invece per quel viaggio che aveva deciso di fare in allegra solitudine, destinazione: isole del Dodecaneso. Era partita con pochi bagagli, una guida della Grecia e il biglietto aereo per Rodi. Da lì, il suo progetto senza data di ritorno era quello di veder tutte le isole di quell’angolo di paradiso. E quando era arrivata al porto di Kameiros aveva preso il primo traghetto per la prima isola, a caso. Destinazione Symi. Aveva deciso di ripartire da lì dopo un paio di giorni e invece ci era rimasta tre mesi. Vallisis era stato il primo a rivolgerle la parola appena scesa. L’aveva vista così bella, spaesata e stordita dalla luce di quel porto colorato e pieno di vita e le si era avvicinato, lasciando a terra il cesto pieno di frutta destinato al piccolo albergo che gestiva con sua madre. «Where do you come from?» le aveva chiesto. Lei le aveva risposto ridendo: «Paris!» E lui si era subito acceso perché il francese lo sapeva parlare molto meglio dell’inglese, visto che al liceo lo aveva studiato per cinque anni.  Le aveva preso lo zaino dolcemente e l’aveva accompagnata fino all’ufficio informazioni. Non le aveva detto che lui aveva un albergo e che c’erano delle stanze libere.

Voleva che fossero gli Dei a decidere.

E gli Dei lo avevano ascoltato, perché un’oretta dopo l’aveva trovata fuori la sua porta con una cartina in mano e con  voucher dell’ente di soggiorno dell’isola. Lei era scoppiata a ridere, lui le aveva baciato la mano e invitata con un inchino a entrare. Era così che era cominciata…

«Come hai fatto a trovarmi?» Sophie si era avvicinata piano piano, il cuore in gola e la borsa di nuovo sulla spalla. Vassilis le aveva sorriso e con la mano libera dai fiori aveva indicato l’hotel Marsollier, che era proprio accanto al suo portone. «Ti ricordi che mi avevi raccontato che vivevi a Parigi sopra l’albergo dove aveva alloggiato Oscar Wilde? Ho comprato dieci biografie diverse per cercare dove e in una…» Ma non era riuscito a finire la frase perché lei lo aveva baciato sulla bocca, travolgendo il mazzo di fiori che aveva cercato di porgerle.

«Cosa sei venuto a fare qui?» Gli aveva sussurrato mezz’ora dopo all’orecchio, dopo quel diluvio di sensazioni e odori che aveva ritrovato sulla pelle di quel marinaio. Lui l’aveva staccata con un gesto deciso, l’aveva afferrata per le braccia e glielo aveva detto: «Sono venuto a prenderti. Questa macchina ha ancora tremila chilometri di vita. E sono quelli che mancano da qui ad Atene. Vieni con me?»

Sophie si era messa a ridere: «Tu sei matto!» Ma Vassilis era al contrario serissimo: «Riparto stanotte. Aspetterò qui. Se non verrai saprò che gli Dei hanno previsto un altro destino per me.»

E Sophie in un secondo aveva deciso.

Non le era servito molto tempo a sistemare le sue cose. Avrebbe riflettuto poi, durante il viaggio, che una vita come la sua, uguale a tante altre la si potesse stravolgere con quattro telefonate e un bagaglio leggero. Le chiavi dell’appartamento le aveva lasciate sotto lo zerbino, si era chiusa dietro la porta per sempre con una leggerezza che le era sembrata essenza d’amore. Si, era amore.

Vassilis l’aveva vista uscire di corsa dal portone e senza dirle nulla le aveva aperto il portabagagli mentre le lacrime di gioia gli uscivano senza controllo.

«Prima però passiamo per l’Italia? Vorrei fermarmi a Bologna, c’è la mia amica Clorinda che studia lì.» Lui le aveva porto la cartina dell’Europa e le aveva detto con un sorriso appena accennato: «Indicami la strada per Bologna. E per Atene.»

Vassilis aveva guidato tutta la notte, si erano fermati due volte soltanto per fare l’amore nel sedile posteriore di quella scalcinata alcova targata Patrasso. Un amore così tanto atteso da riuscire furioso, giocoso e urgente. Avevano dormito qualche ora a Bologna, a casa di una esterrefatta Clorinda che, dopo le parole felici e veloci di Sophie era rimasta in silenzio a guardar quei due amanti dormire abbracciati sul divano letto, incredula e commossa da tanta follia. Erano arrivati al porto di Brindisi quando la terza alba di quel loro primo viaggio insieme si era appena illuminata. Vassilis aveva parcheggiato la macchina in una vietta vicino al porto, aveva staccato con calma le targhe e le aveva buttate insieme alle chiavi nel cestino davanti al molo. Aveva voltato le spalle senza rimpianti a quel catorcio sgangherato e benedetto ed erano saliti sulla nave di corsa, appena in tempo.

«Perché proprio io?» Gli aveva chiesto Sophie, mentre il vento lì sul ponte di prua le copriva il volto di capelli. Lui le aveva sorriso, poi, guardando il blu del mare le aveva indicato un punto lontano all’orizzonte, ora frastagliato di onde e di delfini. « Perché è così che hanno voluto gli Dei.»

19 agosto 2000

«Bonjour messieurs, le petit déjeuner est servi !» Sophie aveva accolto i due turisti italiani appena scesi dalla camera per far colazione. Avevano i volti cotti dal sole del giorno prima, e avevano accennato un timido Kaliméra spiazzati dal saluto in una lingua che da una albergatrice greca non ti aspetti. La donna si era seduta accesa di curiosità così quando Sophie le si era avvicinata per versarle il caffè non aveva resistito e in inglese le aveva chiesto : «Ma lei è francese?» «Di Parigi per la precisione.»

«E Cosa ci fa in quest’isola, come è arrivata in questo puntino di terra sul mappamondo ?» Sophie aveva sorriso, si era affacciata alla grande finestra che affaccia sul porto e lo aveva cercato con lo sguardo, intento a riparare, insieme a altri pescatori, una rete lunghissima sbrogliata per tutta la banchina. Aveva fatto cenno alla turista di affacciarsi con lei e lo aveva chiamato : «Vassilis !» Lui aveva alzato gli occhi e le aveva sorriso. «Ecco cosa ci faccio qui… Lei sa dove alloggiò Oscar Wilde quando arrivò a Parigi ?» La donna aveva accennato un sorriso smarrito. Si era seduta frapponendosi tra Sophie e suo marito che, come incantato da una sirena, continuava a scrutare ammirato le gambe di quella francese misteriosa e sempre sorridente, seducente come una Dea.

«Maman où est la confiture?!» Un bambino con i colori del mare stava scendendo le scale di corsa,  vestito soltanto del costume da bagno e appena atterrato nella sala della colazione era saltato al collo di Sophie che lo aveva stretto a se con un abbraccio. L’aveva portato vicino alla finestra e il piccolo aveva gridato : «Papa allons en bateau?» 

La donna aveva distolto lo sguardo da quell’immagine perfetta, nascondendo anche a se stessa una piccola lacrima che sapeva di mare.

 

 

SOGNO D’AFRICA

Alberto Arecchi 

Chiudo gli occhi e mi rivedo, in un momento felice di tanti anni fa. Camminavo sotto il sole, nel vento, in un’atmosfera radiosa, tra i richiami dei venditori ambulanti. Le ragazze, avvolte in panni coloratissimi, sorridevano e offrivano ai passanti splendidi panieri di frutta. Sul molo i gabbiani volteggiavano intorno alle imbarcazioni, appena approdate. Sbarcavano ceste di pesci scintillanti, ancora vivi, che si agitavano in mille riflessi.

Vivevo nella mia età migliore e vedevo per la prima volta l’Africa. Ero arrivato come operatore di pace. Arrivavo a portare la tecnologia e lo sviluppo. Non portavo “la civiltà”, in quella fantasia non credevo più, ma pensavo che la mia opera potesse contribuire a risolvere i problemi del sottosviluppo, della fame e della sete.

Mi accorsi che ero io, in realtà, a sentire il bisogno di vivere un altro mondo, nell’avventura e nella totale libertà… in quel mondo diverso, colorato, povero di risorse ma ricco di storia e di seduzioni antiche, ma pensavo che fossero gli altri ad aver bisogno di me. Altri che non mi avevano chiamato, che mandavano la figlia a prendere l’acqua al grande fiume, perché a casa loro non avevano i rubinetti collegati con l’acquedotto, né il gas, né la corrente, né la TV.

Sembrava che le stagioni non dovessero mai trascorrere. Era un eterno presente, non esisteva più il passato e non si sapeva nulla del futuro: era l’istante successivo o vent’anni dopo, sapevi solo che non l’avevi ancora vissuto.

La Croce del Sud si levava ogni sera sopra l’orizzonte australe. La bianca città, sulla costa dell’Oceano Indiano, si animava di vita nelle discoteche, nel tiepido flusso dei monsoni. La scoperta di sapori esotici. Cene e serate danzanti, sulle terrazze di edifici che ora sono completamente rasi al suolo.

Le ragazze del luogo erano rinomate per la loro bellezza e per il comportamento accattivante, “da femmine”, in un’epoca in cui il mio mondo era stato colpito dall’esplosione del femminismo.

Viaggiavo su un motorino, allora. Guardando foto attuali, m’immagino il fragile mezzo a due ruote volare attraverso buche enormi, nei quartieri bombardati e sventrati, lungo strade trasformate in un oceano tempestoso di voragini e di dune di sabbia, costellate d’automezzi bruciati e d’orribili resti umani.

Il mio pensiero ritorna ad un’altra notte, in un altro paese, trascorsa a scorrazzare per i quartieri d’una città addormentata, con un soldato che per voleva ringraziarmi con il regalo d’una scimmia, da mangiare. Nella vita reale, il soldato non riuscì a trovare la scimmia, che i parenti avevano già consumato. Ora però, nel mio sogno, mi appaiono con chiarezza la pelle nera e la testa dell’animale, gli occhi vitrei e spenti che mi fissano da un passato, sempre presente.

A lungo ho rimpianto di non essermi stabilito in quell’angolo di paradiso. Invece, come tutte le cose della vita, quel mondo poteva essere vissuto solo allora, al tempo giusto: non poteva durare né di più né di meno. Oggi quella città non esiste più, è diventata un immane campo di rovine, nel quale ogni giorno si scontrano bande armate di bambini, come gli eserciti d’un gioco di ruolo. Non è un gioco, purtroppo, ma la dura realtà d’una vita quotidiana, basata più sui proiettili che sul pane.

Gli amici di allora si sono persi, annegati ognuno nel proprio mondo quotidiano. Chissà dove sono, in questo momento…

Incontrai di nuovo la giovane Safia, tredici anni dopo, allo stesso tavolo, nella stessa discoteca, proprio mentre raccontavo agli amici il ricordo del mio primo ingresso in quel locale. La sala da ballo era molto decaduta, negli anni: da appendice del migliore albergo della città a balera malfamata. Safia era ancora lei, con il corpo (e la testa) da sedicenne e ventinove anni non dichiarati, reduce da diversi matrimoni e convivenze. Un evento che potrebbe accadere soltanto in un romanzo d’appendice, o in un sogno. Due fili si riannodavano quella sera, per un momento, nello svolgersi dell’enorme gomitolo del tempo, come quelle onde che sciacquano a lungo le anse a lunetta della spiaggia, sulla costa dell’Oceano: si separano e poi ritornano da direzioni diverse, anche opposte, come se d’improvviso avessero una gran fretta d’incontrarsi.

Un giorno mi sono risvegliato in una società che mi era sembrata grande, internazionalista, aperta al mondo con solidarietà, ma ora scoprivo non essere altro che un piccolo villaggio. La mia lingua era diventata diversa, sorridevo e fissavo la gente negli occhi, non la soppesavo dal valore degli abiti o dallo splendore della punta delle scarpe. Sapevo districarmi in circostanze difficili e dialogare con uomini del popolo, come con i ministri. Inspiegabilmente, però, qui sembrava che non fossi mai esistito, neppure per i vecchi amici, come un moderno Ulisse che fosse stato assente per secoli dalla propria città. È stato così che, all’età di quasi quarant’anni, mi sono ritrovato solo, senza ragioni apparenti, in quella che un tempo era stata la “mia” realtà, dopo aver vissuto in mondi diversi, che mi accettavano per quello che realmente ero.

L’Africa ritorna in sogno come uno scenario ricorrente. Vivere laggiù è stato come essere una di quelle onde, che lambiscono i lidi degli Oceani: fra tante altre, un giorno o l’altro, ne incontri di nuovo qualcuna. La Boscaglia, la Savana, il Deserto sono come mari, le piste li attraversano come rotte e i porti, dove chi ritorna è riconosciuto per i suoi ricordi: “lei ha conosciuto l’Hôtel Transat?”

L’Hôtel non esiste più, ma tu sei come uno della famiglia, perché ci sei stato. Ti potevi aspettare d’incontrare, ad ogni curva della pista, uno di quegli animali mitici descritti dagli antichi viaggiatori arabi, come gli scorpioni volanti dalla puntura mortale, o il celebre uccello bianco, blu e verde, detto Semendel, che può entrare nel fuoco senza bruciare, ed avreste potuto scambiare un coniglio solitario per quel quadrupede simile alla lepre che – sempre secondo gli antichi cronisti – poteva cambiare sesso a volontà.

I ricordi dell’Africa sconfinano con il mito: dove sono ormai le verdi colline, percorse come il deserto da migliaia e migliaia di fuoristrada… e dov’è andata quella signora, figlia di uno dei primi italiani sbarcati al tempo della guerra d’Africa, che ricordava la propria gioventù come “il tempo in cui i barambara volavano…”? Barambara, in lingua somala, è il nome del rosso scarafaggio africano, dalle lunghe antenne, che appare di notte, in orde fameliche, per impossessarsi della casa buia, e poi scompare alle prime luci del giorno. I barambara, in Africa, si trovano dappertutto, anche lungo la parete della doccia, a solleticarvi con le loro lunghe antenne. Mi è capitato persino di trovare qualche cucciolo di barambara stirato, insieme alla biancheria appena tolta dal cassetto. Essi si alzano in volo, però, in un solo periodo dell’anno: nella stagione degli amori. Un volo goffo, che dura poco, come quello delle più eleganti farfalla, come tutte le cose effimere, come la fioritura del baobab o la felicità della stagione giovanile.

Il deserto continua ad avanzare e divora i campi coltivati, più per causa degli uomini che abbandonano la terra che non del clima, che va e viene. La pioggia ritorna, ma gli uomini non sono più là per coltivare. Hanno lasciato le oasi e i campi fertili, gli uni per andare a raccogliere le briciole degli aiuti internazionali, gli altri vendere accendini e paccottiglia nelle città dei bianchi. Qui il ritmo della vita quotidiana è scandito dal denaro, dal traffico, dai supermercati, dagli oggetti venduti ad ogni angolo di strada, come i corpi delle ragazze; dall’arrangiarsi a vivere senza la grande famiglia, senza il villaggio, senza l’albero sacro dei propri antenati.

Tutti noi, figli d’Africa, cooperanti, dopo anni di volontariato e consulenze, ci siamo svegliati da un sogno, iniziato molti anni fa, cullato forse dall’illusione d’un “nuovo modello di sviluppo”. Il risveglio è stato sicuramente brusco e penoso. Non è facile da accettare. Spesso mi capita ancora di chiudere gli occhi per cercare la consolazione nei sogni o nei ricordi, e di vagare con le immagini della mente alla ricerca del Semendel, il mitico volatile bianco, blu e verde, capace d’entrare nel fuoco senza bruciarsi le penne.

L’Africa attende sempre, vasto continente sconvolto dalle guerre e sommerso dai misteri, squassato da troppi appetiti. Bambini di dieci anni non ricevono più nel bosco sacro l’iniziazione all’età adulta, ma la ricevono sul campo di battaglia, con armi automatiche in pugno. Nessuno ha costruito i nuovi villaggi agricoli, a lungo pubblicizzati sugli articoli della stampa di regime. Le ragazze di allora sono invecchiate, molte se ne sono andate, dimenticate, senza una famiglia che le pianga e senza mai più rivedere la grande città della loro gioventù bruciata.

AMERICAN EXPRESS

Perla Nappa

 

Giorno 1

 

Tutto ebbe inizio una gelida mattina di novembre.

Paul dormiva tranquillamente nel suo letto quando la sveglia iniziò a suonare.

“Oh cavolo, sono di nuovo in ritardo!” esclamò mentre si affrettava a scendere dal letto, il contatto dei piedi nudi col pavimento gelato lo fece rabbrividire aiutandolo a svegliarsi.

Pochi minuti dopo Paul era seduto in cucina a bere il solito caffè bruciacchiato quando qualcosa attirò la sua attenzione, una busta nera sporgeva da sotto la porta d’ingresso.

Si alzò e la raccolse incuriosito, non può essere la posta è troppo presto, pensò.

Era una semplice busta da lettera nera , non c’era scritto nulla sopra a parte il suo nome appena

leggibile.

La guardò attentamente rigirandosela tra le mani, guardò l’orologio e si rese conto che era

terribilmente in ritardo, infilò la busta nella tasca e si affrettò a lavoro.

Durante la pausa Paul rimase nel suo ufficio e finalmente poteva aprire la busta.

“ Cos’è uno scherzo??” disse mentre esaminava la American Express col suo nome sopra e il codice

scarabocchiato su un foglietto di carta.

C’era anche un biglietto:

GENTILE SIGNOR PAUL HARRIS,

SPERIAMO CHE NE FACCIA BUON USO.

Appena uscito da lavoro Paul si recò a un bancomat, credeva fosse uno scherzo di cattivo gusto ( dato suoi problemi finanziari) ma voleva comunque controllare.

Quello che vide non appena inserì il codice lo lasciò a bocca aperta.

720,000 $

Con mani tremanti e ancora incredulo tentò un prelievo.

Prese 20,000 dollari e si recò in una gioielleria lì vicino (dove non avrebbe potuto permettersi

nemmeno di entrare) e pieno di timori e dubbi acquistò un orologio d’oro, Dio fa che vada tutto bene, e fu così in effetti.

Giorno 2

 

Paul non chiuse occhio quella notte, continuava a pensare a quante cose poteva fare con tutti quei soldi, aveva ancora il sospetto che fosse uno scherzo certo, ma era deciso, voleva tentare un acquisto maggiore e una macchina nuova faceva al caso suo.

Quello sera stessa, dopo il lavoro, tornò al bancomat con la sua nuova macchina, ancora non ci credeva che era andato tutto bene, e aveva il timore ancora mille timori e dubbi, ma nonostante ciò non riusciva a fare a meno di pensare a quante cose poteva comprare con tutti quei soldi. Finalmente tutti i suoi debiti avrebbero smesso di tormentarlo. Inserì la carta sicuro del fatto che questa volta avrebbe trovato una scritta del tipo: “Piaciuto lo scherzo?” ma non andò così.

740,000 $

A QUANDO IL PROSSIMO ACQUISTO?

P.S. BELLA MACCHINA.

Di ritorno verso casa, Paul sentì un’inquietudine farsi strada dentro di lui e si pose mille domande; chi l’ha lasciata?? Perché i soldi sono aumentati? Chi mi scrive quei messaggi?

guardò nello specchietto in preda al panico. Due fari lo osservavano nel buio.

Qualcuno mi sta seguendo??

La pioggia iniziò a cadere.

Paul entrò di corsa in casa ormai convinto che qualcuno lo stesse pedinando, deciso a sbarazzarsi della carta che solo pochi giorni prima era sotto la sua porta.

Prese una torcia e si precipitò fuori casa, non curante della pioggia che nel frattempo aveva aumentato d’intensità, e corse in direzione del vecchio parco dove da parecchi anni non andava più nessuno.

Arrivato sul posto si accorse che nella fretta non aveva preso nulla per aiutarsi a scavare, lo farò a mani nude, pensò. Fortunatamente la pioggia gli avrebbe facilitato il lavoro.

Si chinò sul terreno e iniziò a scavare, e se da una parte la pioggia lo aiutava, dall’altra gli rendeva difficile tenere gli occhi aperti. Prese la carta con tutta la busta e la gettò nella buca ricoprendola come meglio poté.

Giorno 3

 

La mattina seguente Paul venne svegliato dai raggi del sole, la pioggia era finita, tutto sembrava

essere tornato alla normalità.

Si alzò lentamente con le mani ancora doloranti.

“Finalmente è finita” disse alla stanza vuota. Come al solito andò in cucina per prepararsi un caffè.

Però, mi sarebbe stata utile pensò guardando il suo misero appartamento. Prese la tazza e quello che vide voltandosi gli gelò il sangue.

Sopra il tavolo la busta bagnata e sporca di fango sembrava osservarlo.

 

 

UN ALIENO A ROMA

Roberto Oliva

Il simposio perpetuo delle coscienze autonome con estensione interstellare teneva d’occhio il pianeta da diverso tempo.

La definizione “diverso tempo” poteva essere interpretata in svariati modi ma nell’accezione più comune all’interno del simposio significava non meno di trecento rotazioni complete del suddetto pianeta nella sua orbita intorno alla singola nana gialla che lo legava con la propria gravità.

Il simposio non aveva un numero fisso di appartenenti ed anzi incoraggiava favorevolmente  l’ingresso di ogni nuova specie senziente, sia che fosse biologica, sia che fosse frutto di una evoluzione artificiale successiva al superamento della singolarità tecnologica che molte intelligenze biologiche erano costrette a superare, sia che fosse costituita da pura informazione quantistica emergente.

Per la specie biologica sotto osservazione la singolarità tecnologica si avvicinava rapidamente, ma numerosi elementi rendevano le proiezioni statistiche  dell’evento curiosamente incerte. Alcune peculiarità creavano variabili multiple di ordine qualitativo e nominale, fino a configurare proiezioni di completa ed irreversibile autodistruzione.

Uno dei membri più antichi del simposio era affascinato da queste tensioni contrastanti, perché ai primordi della propria trasformazione a seguito della singolarità aveva subito gli stessi problemi, senza però patire l’intensità con cui venivano vissuti quegli stessi problemi dalla specie sotto osservazione.  Era come rivedere la propria antichissima storia in tempo reale attraverso uno specchio deformante, da esseri che sembravano caricature delle loro primitive sembianze biologiche. Era per questo motivo che insistevano con gli altri membri del simposio nel voler programmare una sonda che raccogliesse dati di prima mano presso la specie sotto osservazione.

“ Non se ne parla.”  obiettò Delta W pi greco radianti sotto T, che oltre ad indicare il nome di uno dei membri più autorevoli tra le autocoscienze quantistico energetiche del simposio descriveva anche la frequenza  della loro univoca velocità angolare multidimensionale.

“ Questa fase dell’evoluzione di una specie senziente è tra le più delicate e meno conosciute. 

  Abbiamo un’occasione unica per studiarla. Inoltre le peculiarità rilevate rendono questo caso

  particolarmente interessante. Nell’ultima rotazione galattica abbiamo avuto quattro fallimenti  

  dovuti a squilibri ambientali, un caso di stasi per ridondanza tecnologica ed un solo successo di

  trasformazione da singolarità biomeccanica. I dati che potremmo raccogliere da questa specie

  potrebbero rivoluzionare la nostra filosofia anaentropica.”  insistette il membro di Quo’dram, che

per quella riunione aveva assunto l’aspetto di un diamante lungo e stretto di tre metri d’altezza con riflessi verdi e azzurri.

“ Potremmo votarlo a maggioranza” suggerì il membro Kry, collegato telepaticamente al resto della sua specie che formava complessivamente un super organismo senziente costituito da insetti sociali. Per tradizione il membro di quella specie manteneva il suo aspetto biologico nell’ambiente virtuale del simposio.

La proposta venne approvata e la votazione organizzata e conclusa nell’arco di tre millisecondi.

L’esito fu favorevole e il membro di Quo’dram trasmise la notizia tramite correlazione quantistica al resto della sua specie con toni entusiastici.

Adesso il problema era organizzare il tutto, rispondendo a due fondamentali quesiti: come e dove.

Per il come venne costruita una sonda dalle sembianze di un appartenente della specie che si voleva osservare, di sesso maschile. Era assodato da millenni che l’evoluzione biologica del pianeta aveva adottato, per gli organismi più evoluti, la differenziazione bisessuale e la specie senziente che si voleva studiare non faceva eccezione. Venne scelto un maschio anziché una femmina perché gli ultimi studi sulle diverse società culturali presenti sul pianeta indicavano che questi ultimi avevano più libertà di azione.

Per il dove, che in apparenza sembrava il quesito più semplice (un posto vale l’altro), ne derivò al contrario un dibattito acceso. Il fatto era che alcune rare società limitavano i movimenti e le libertà d’azione dei propri appartenenti, ed erano concentrate per lo più nel continente più esteso, mentre quelle che sembravano più libere erano anche le più pericolose, almeno per quanto si poteva capire dai notiziari bidimensionali trasmessi su onde elettromagnetiche a bassa frequenza.

Venne scelta una località che veniva visitata regolarmente dagli appartenenti di quasi tutte le società, descritti in questi viaggi con l’appellativo di turisti, e che presentava vari parametri equilibrati tra di loro riguardo la libertà d’azione e l’assenza di pericolo. La sonda doveva confondersi tra questi turisti, senza destare sospetti, ed analizzare la specie nell’arco di una singola rotazione del pianeta sul proprio asse. I dati raccolti sarebbero stati sufficienti per successive analisi approfondite e avrebbero tenuti impegnati gli scienziati che partecipavano al simposio per molto tempo a venire.

I particolari erano importanti per una missione così delicata. Venne scelto l’aspetto della sonda utilizzando algoritmi  probabilistici, partendo dall’anatomia del corpo, passando per gli indumenti che doveva indossare, i documenti che doveva mostrare in caso di necessità, fino ad inserire microscopici difetti per non farla sembrare troppo perfetta rispetto agli standard della popolazione da studiare. Alla fine si ritennero tutti soddisfatti del prodotto finito.

Una navetta monoposto con tecnologia furtiva estesa a tutto lo spettro elettromagnetico depositò la sonda alla periferia della città durante il periodo notturno di rotazione del pianeta. Per prudenza era stata scelta la notte per limitare al minimo la possibilità che qualche occhio indiscreto vedesse apparire un loro simile praticamente dal nulla, dato che la navetta era invisibile.

Dopo un rapido controllo delle immediate vicinanze la navetta fece uscire la sonda e subito dopo decollò per tornare in un’orbita di parcheggio. Sarebbe ritornata nello stesso punto ed alla stessa ora la notte successiva, per recuperare la sonda.

La sonda ricontrollò i dati aggiornati dell’ultimo download.

pianeta: Terra, secondo la dizione adottata dalla maggior parte della specie dominante.

specie senziente: umani (come sopra riguardo i vocaboli utilizzati).

luogo: continente euroasiatico (quello più esteso) ed in particolare nella nazione Italia e qui nella città di Roma, località visitata da un nutrito numero di turisti nel corso dell’anno.

Dati personali: Mikheil Eristavi (nome e cognome) di nazionalità georgiana, turista in visita nella meravigliosa città di Roma (frase adottata da una pubblicità in rete). La nazionalità fittizia di provenienza era stata scelta dal simposio, tra tutte quelle disponibili, perché offriva una certa difficoltà alle autorità italiane riguardo ad una approfondita identificazione del simulacro umano. Dato che la sonda era stata depositata direttamente alla periferia della città e non era passata tramite la dogana dell’aeroporto internazionale l’espediente adottato serviva solo in caso di emergenza.

Il simposio non si aspettava particolari difficoltà. La sonda doveva limitarsi ad osservare e riferire, senza intromettersi in situazioni potenzialmente pericolose.

Dopo una rapida occhiata al piccolo parco pubblico in cui era stata depositata, la sonda, che da adesso in poi chiameremo Mikheil, si diresse verso una strada laterale. Sul marciapiede vide un esemplare di razza femminile che sostava sotto un lampione. La notte buia era rischiarata solo da questi suggestivi e primitivi elementi. Nei dintorni non c’era nessun altro. Non sembravano esserci particolari limitazioni nel chiedere informazioni, come avrebbe fatto un turista, ed allo stesso tempo cominciare a raccogliere i primi dati.

“ Salve! “ salutò in lingua italiana sorridendo verso la sua prima interlocutrice umana.

La donna si voltò di scatto perché non l’aveva sentito arrivare e lo squadrò allarmata. Mickheil indossava un completo grigio chiaro costituito da pantaloni e giacca, camicia bianca e cravatta rossa. Portava scarpe di pelle marroni. Sorrideva fissandola intensamente, con i denti bianchi che si intravedevano attraverso le labbra. Era la tipica espressione adottata dagli annunciatori di tutto il mondo nei notiziari. Ma Mikheil manteneva un’espressione fissa che in quel contesto lo faceva somigliare ad uno psicopatico.

“ Non me toccà brutto fijo de mignotta! L’omo mio sta pè venì e se te pija te stira li cojoni come 

  fettucine.”  gridò la donna tirando fuori dalla borsetta una bomboletta spray.

Mikheil si bloccò all’istante mantenendo la stessa espressione mentre il suo cervello di deca cristallo biologico elaborava furiosamente i nuovi input appena giunti. La donna parlava un italiano distorto. La risposta venne dopo qualche picosecondo informandolo che si trattava del dialetto parlato in quella città. La strategia suggerita era di mantenere la dizione corretta per non compromettere la sua identità fittizia. Ma la reazione al suo saluto era stata assolutamente imprevedibile e non c’erano suggerimenti validi da adottare, tranne quello di allontanarsi immediatamente da quel luogo. Senza proferire nessun altra parola Mikheil girò la schiena alla donna e cominciò ad allontanarsi nella direzione da cui era giunto.

“ Bravo! E’ mejo che t’allontani che m’incazzo facirmente cò li matti.” Gli gridò dietro la donna.

Dopo essersi allontanato Mikheil voltò verso una strada che sembrava dirigersi verso il centro città.

Ma lì si bloccò di nuovo osservando la scena che gli si presentava agli occhi. Altre donne sostavano sotto i lampioni dell’ampio marciapiede laterale. La strada doveva essere un’arteria principale perché veniva percorsa da numerosi veicoli su ruote, con i fari accesi. Erano del tipo con motore a combustione interna, adottato su tutto il pianeta, con una ridicola efficienza nel rapporto energia / lavoro, ma curiosamente molto difficili da abbandonare per la locomozione quotidiana da parte degli umani.

Alcuni veicoli a motore accostavano presso quelle donne e sembrava che i conducenti parlassero con loro, come a chiedere informazioni. Alcune donne entravano dentro i veicoli, che si allontanavano subito dopo. Guardandosi intorno Mikheil si rese conto che non c’era altra via che poteva fargli raggiungere più facilmente il centro città prima dell’alba, ma nello stesso tempo tutto quel via vai sembrava fonte di potenziali pericoli non prevedibili.  Forse camminando accostato ai muri dei rari edifici sulla strada e tenendosi lontano da quelle donne, che sembravano svolgere una funzione sociale non ancora definita ma regolata da precisi rituali che non conosceva, poteva superare quella zona ed entrare in quartieri più tranquilli.

Decise quindi di adottare quella strategia e per i successivi sessanta minuti camminò spedito guardando fisso davanti a sé, senza dare confidenza a nessuno dei rarissimi passanti ed evitando di soddisfare la propria curiosità sulle strane attività che si svolgevano dentro alcuni autoveicoli parcheggiati in ampie aeree di sosta al lato della strada. 

Sembrava che l’espediente funzionasse. Aveva superato la zona giudicata pericolosa ed attraversava un quartiere decisamente più tranquillo quando un lampeggiare di luci blu proveniente dal tettuccio di un veicolo gli sbarrò la strada mentre si accingeva ad attraversare un piccolo incrocio.

Scese un essere umano che indossava quella che Mikheil identificò come una divisa della polizia. Anche l’automobile era una volante della polizia, i dati di download non lasciavano dubbi.

“ Documenti, per favore”  disse l’uomo fissandolo.

“ Certamente agente. Eccoli qui.”  disse Mikheil tirando fuori dalla tasca interna della giacca il falso passaporto creato dai laboratori del simposio interstellare. La piccola foto del suo volto campeggiava sulla prima pagina interna. L’agente prese il passaporto e lo studiò.

“  Michail Eristav georgiano? “ domandò fissandolo con espressione dubbiosa.

“  Si pronuncia Mickheil Eristavi. Sono un turista. Voglio visitare la meravigliosa città di Roma.” rispose Mickheil sottolineando le h aspirate della reale pronuncia del suo nome.

“  Parla bene l’italiano per essere un semplice turista … “  disse l’agente accigliato.

Mickheil stava per rispondere ma si bloccò. In effetti quell’aspetto non era stato preso in considerazione dai suoi costruttori. Un semplice turista non era tenuto a conoscere perfettamente tutte le lingue del globo. Il suo fenomenale cervello biologico-decacristallino trovò una soluzione in mezzo millisecondo.

“  Sono un linguista. Oltre alla mia lingua di origine e l’italiano conosco l’inglese, il francese, il

    tedesco, lo spagnolo, il russo ed il serbo. Vuole una dimostrazione? “

“  No. Ma il russo non dovrebbe già essere la sua lingua di origine?” domandò sospettoso l’agente.

“  Il georgiano è diverso dal russo. Ad esempio … “ e Mickheil si mise a parlare in georgiano.

“  Basta così! Le credo. Me potrebbe parlà in cispadano tanto non conosco le lingue. Dove

    alloggia?”

Quella era una domanda  che aveva tenuto impegnati i suoi costruttori con diversi strati di elaborazione, consultando tutti i dati raccolti dai notiziari bidimensionali e tutte le altre fonti possibili. Era uno dei motivi per cui alla fine era stata scelta la città di Roma.

“  Alcuni parenti mi stanno ospitando. Mia sorella fa la badante ad un vecchio signore italiano. Non

    voglio metterla in difficoltà. Posso chiedere il perché di tutte queste domande?”

L’agente si stava rilassando. Mickheil lo deduceva dal suo lento passare da un linguaggio formale al suo dialetto di origine.

“  T’avemo visto mentre passeggiavi a piedi guardando le mignotte. Cò sto vestito e a piedi sembri

    strano. Avemo deciso che era mejo controllà.”  rispose l’agente restituendogli il passaporto.

“  Mignotte? “  domandò incuriosito Mickheil. L’agente sogghignò.

“  Lontano da casa, lontano d’ar core, eh? Tu sorella nun lo sa dove passeggi de notte? Nun ciai la

    macchina? … E li sordi? Te metti er vestito della domenica pè rimedià nà pugnetta?”

“  Io … non … non credo di capire …”  cominciò a balbettare Mickheil.

“  Ok. Ok, tranquillo … nun te spaventà. Vuoi che t’accompagnamo a casa?”

“  Uhmm …  preferisco continuare a piedi. Non è lontano da dove abito.”

“  Ho capito. Nun voi spaventà tu sorella. Poi andà ma cerca de nun combinà casini.”

L’agente rientrò in macchina dove lo aspettava il collega e subito dopo la volante, con uno stridio di ruote , si allontanò per la via. Mickheil Eristavi rimase fermo ad osservarla mentre girava l’angolo successivo e poi riprese a camminare per la via, allungando il passo. Il fatto che fosse stato fermato dai tutori dell’ordine dopo appena due ore dallo sbarco poneva forti dubbi sul proseguimento della missione. In caso di assoluta emergenza era programmato per autodistruggersi tramite slegamento molecolare, senza nessuna conseguenza per qualunque forma di vita nelle immediate vicinanze. Ma il processo in sé avrebbe fatto sorgere numerose domande a qualunque essere senziente che si fosse trovato ad osservarlo.

Per sua fortuna le successive ore non portarono altre novità allarmanti. Possedeva un cervello estremamente auto adattativo che imparava velocemente dagli errori commessi, ed una banca dati con le conoscenze acquisite di tre secoli di osservazione da remoto. L’alba lo trovò mentre studiava alcuni simboli disegnati sui muri, caratteristica comune a molti edifici che aveva superato. La banca dati lo informava che erano graffiti eseguiti con bombolette spray contenenti vernici colorate. La maggior parte erano incomprensibili ma un disegno stilizzato aveva attirato la sua curiosità.

Due cerchi appaiati si toccavano in un punto comune e nella parte superiore due linee parallele partivano da altri due punti delle circonferenze posizionati a circa quarantacinque gradi di angoli complementari. Le due linee si richiudevano in un semicerchio dopo circa una lunghezza doppia rispetto al diametro dei cerchi. Altri due segmenti a forma di T rovesciata delimitavano il semicerchio superiore. Il disegno sembrava uno schema estremamente stilizzato delle astronavi della specie senziente Ligatrecu di Fuxawis, che utilizzava due contenitori sferici per il contenimento magnetico di antimateria da utilizzare nei loro spostamenti interstellari. Quella specie attendeva da cento anni terrestri l’ingresso ufficiale nel simposio permanente. Agli umani sarebbero sembrati dei polipi giganti con un numero spropositato di tentacoli. Trovare uno schema stilizzato delle loro astronavi sui muri della città di Roma era quantomeno singolare.

“ A’ frocio … te piaciono li cazzi disegnati … “  lo apostrofò una voce da dietro le spalle.

Mickheil si voltò per guardare chi gli aveva parlato. Una coppia di umani, maschio e femmina, lo stava osservando divertita. Il maschio mostrava sul volto quello che la banca dati di Mickheil classificò come piercing, capelli completamente rasati ai lati della testa, abbigliamento non standardizzato. La femmina aveva capelli viola, un numero di piercing superiore ed abbigliamento simile. Masticava qualcosa che però non si decideva a deglutire. Chewing gum gli suggerì la banca dati, che in italiano era tradotto come gomma da masticare.

“ Cazzi disegnati? “ domandò incuriosito.

“ Cazzi, piselli, mazze, batacchi …” aggiunse la giovane femmina umana mentre sorrideva sotto il braccio del suo compagno. La banca dati riportò tutti i riferimenti nell’arco di microsecondi e Mickheil mostrò sul volto una notevole sorpresa (aveva imparato durante la notte che non cambiare espressione a seconda del contesto induceva allarme negli interlocutori umani).

“ Ohh … adesso capisco. Questo è il disegno stilizzato di un organo sessuale umano di riproduzione

   maschile”  commentò assorto.

“ Perché? E’ a’ prima vorta che ne vedi uno?”  gli domandò il giovane maschio.

“ Nelle vostre trasmissioni bidimensionali … voglio dire, in televisione non mostrano mai questo

  disegno.” rispose.

“ Pè forza. Vivemo i nà società repressiva e paternalistica. Dominata dai zozzoni der monno.”  confermò il maschio.

“ Ciai der fumo?”  domandò la femmina.

Mickheil la guardò valutando tutte le centosettantaquattro opzioni del suo schema comportamentale. Ecco un’altra domanda potenzialmente pericolosa nei riguardi della sua vera identità, minata dall’evidente difformità tra il linguaggio parlato quotidianamente dagli umani in strada e quello trasmesso in tutti i loro media elettromagnetici. Scelse la prima opzione, quella con il novantaquattro per cento di successo.

“ No. Mi dispiace.”  rispose. La ragazza parve delusa. Il ragazzo alzò una mano con le dita allargate.

“ Va bene, coso. Pace. Nun te fermà troppo a fissà li cazzi disegnati che te ne ritrovi uno vero ner

   culo.”

“ Seguirò il tuo consiglio alla lettera giovane um … , amico. Non intendo combinare guai.”

“ Che mai preso pè un’infame de guardia? Fa’ come te pare ma sta attento quando te chini. Ce

   vedemo.”  detto questo i due giovani umani si allontanarono. Mickheil decise di estendere i suoi sensi uditivi al fine di percepire anche da notevole distanza tutte le conversazioni in un raggio di trenta metri. La città si stava risvegliando e lui capì che con quel metodo poteva raccogliere un mucchio di informazioni senza dare troppo nell’occhio. I dati raccolti tramite intercettazione e decodifica delle trasmissioni radio umane non bastava per una completa comprensione di quella specie. Era essenziale per il successo della sua missione frequentare i luoghi più affollati della città restando in disparte. Così fece per tutto il resto del giorno e della sera, aumentando la sua comprensione delle reali inferenze che gli umani si scambiavano in modo reciproco. 

All’ora convenuta si ritrovò nel piccolo parco della notte precedente, senza giacca e cravatta e con la camicia sbottonata a metà. Quando la navetta invisibile atterrò fu lesto ad entrare e ripartire in meno di un minuto. Sulla nave madre che si manteneva nell’ombra all’interno di un cratere sul lato nascosto della Luna scaricò tutti i dati raccolti nelle ultime ventiquattro ore.

I membri del simposio permanente erano estremamente curiosi di analizzare i dati, compresi Delta W pi greco radianti sotto T, che aveva inizialmente osteggiato l’iniziativa.

“ Gli umani sembrano ossessionati dal loro organo di riproduzione sessuale maschile. Compare in

   molte conversazioni, specialmente nella forma interrogativa, quando è accompagnata da forti

   emozioni. E’ citato da maschi e femmine senza eccezioni.” borbottò lo scienziato di Quo’dram.

“  Questa caratteristica della specie umana di inserire nei loro discorsi nozioni e informazioni non

    corrispondenti alla realtà essendone, nonostante tutto, consapevoli, è assolutamente allarmante.

    Le chiamano con diversi termini: bugie, esagerazioni, miti, finzioni. “  esclamò il membro Kry, che continuò:  “In nessun altra specie senziente è stata registrata con questa intensità. Tale

    peculiarità pone seri problemi per una loro futura ammissione nel simposio. Probabilmente non

    verranno ammessi mai.”

“  E sti cazzi.”  fu il commento finale di Mickheil Eristavi prima di essere disattivato.

 

 

RADICI

Annalisa Potenza

Dal balcone della sua nuova casa a Mumbai, i suoi occhi si perdevano nell’immenso azzurro del mare, accarezzavano le dolci colline in lontananza, si riempivano dei colori della vegetazione.  Sentiva che quella terra era la sua vera madre, dalla quale si era dovuta allontanare. Ma ora che era lì, di nuovo insieme a lei, niente e nessuno le avrebbe più divise.

Mentre era assorta nella più intima contemplazione, suo marito la avvisò che era arrivato il giornalista per l’intervista che avevano concordato.

Rientrò nella stanza, fece una grossa inspirazione alla quale seguì un’altrettanto lunga espirazione e si affrettò a scendere le scale.

Ad attenderla trovò un omino sulla cinquantina, scuro di pelle e dal volto simpatico che la ringraziò per la sua disponibilità.

Si sedettero in giardino, sulle poltrone di vimini che lei e William avevamo comprato di recente.

“Desidera un caffè oppure un thè? Abbiamo anche i pasticcini”. – sorrise Kishori mentre Mayuri, la loro governante, apparecchiava una tovaglia di lino sul tavolino davanti a loro.   

 “Un thè grazie. E’ tutto così bello qui: la casa, la natura, il cielo. Ho capito perché ha voluto lasciare Londra. Mi perdoni queste osservazioni impertinenti. Sono pronto ad ascoltarla. Inizi da dove ritiene opportuno e mi permetta di prendere qualche appunto”.

Kishori sorseggiò un pò di caffè e iniziò a raccontare.

Aveva solo cinque anni quando fu adottata dai coniugi Spencer, una ricca e giovane coppia londinese che, durante il suo soggiorno a Mumbai, aveva visitato l’L.N.H. Orfanage, fondato agli inizi del secolo dai coniugi Henry e lady Northcote per aiutare i bambini rimasti orfani in seguito all’epidemia che aveva sconvolto il Maharashtra.

Mentre osservavano la cura con la quale era tenuto l’ambiente e conoscevano i piccoli ospiti dell’istituto, la loro attenzione fu catturata dallo sguardo di una bambina i cui occhi erano di un colore indefinito, tra il verde e il marrone, e sembravano voler raccontare loro tante cose. Chiesero il permesso di poter trascorrere un pomeriggio insieme a lei e poi decisero di adottarla.  

 Kishori fu cresciuta alla maniera occidentale: andò scuola, imparò ad usare tutti gli strumenti tecnologici, prese lezioni di pittura e danza.

Dopo le scuole superiori si iscrisse alla facoltà di economia e commercio e trovò lavoro in una ditta di import – export.

 Era molto grata ai suoi genitori per averla tolta dalla povertà e regalato una vita decisamente migliore, ma spesso provava una forte nostalgia per il suo Paese.

Le tornavano in mente le immagini del letto nel quale dormiva, della sala nella quale mangiava insieme agli altri bambini, del cortile nel quale giocava con loro, delle amorevoli persone che si prendevano cura di lei, delle risaie dove ricurvi lavoravano i contadini, della natura che caratterizzava la zona dell’entroterra.

Nel chiedersi quale futuro avrebbe avuto se fosse vissuta in un Paese come l’India, si sentiva contenta di essere diventata europea, ma nello stesso tempo una parte di lei continuava ad appartenere profondamente a quei luoghi. Ora che era diventata adulta, aveva voglia di fare ritorno nella sua terra.

I suoi genitori, trovandone legittime le esigenze, la lasciarono libera di partire.

Nella penultima settimana di luglio, l’aereo decollò da Londra con a bordo lei e il suo William.

Si erano conosciuti all’università e facevano coppia da alcuni anni.

Lui era figlio di un noto imprenditore londinese che, dopo la laurea, lo aveva preso a lavorare in azienda. Durante il volo si sentiva emozionata come se stesse andando ad un esame. Si chiedeva come l’avrebbero accolta all’orfanotrofio, se il personale fosse cambiato, se avesse ritrovato le sue care istitutrici Maya, Priya e Ramita.

Ricordava poche parole della sua lingua madre, ma era sicura che si sarebbero capite senza difficoltà. Arrivati a Mumbai, andarono dritti a dormire nell’albergo che avevano prenotato, il Taj hotel, dato che era già tarda notte.

L’indomani fece conoscere a William la città. La trovò cambiata dopo tanto tempo: era stata resa sotto certi aspetti più moderna e più attraente per i turisti.

Fecero prima una passeggiata sul lungomare, respirando l’aria mattutina carica di salsedine. Poi ritornarono verso il centro.

 Durante il tragitto incontrarono alcune mucche che camminavano indisturbate lungo le strade, furono fermati da un gruppetto di bimbi che chiedevano l’elemosina, videro  donne intente a fabbricare cestini e vestite con sari sgargianti, furono attratti da un gruppo di giocatori di cricket mentre attraversavano un parco.

Nel quartiere di Colaba si teneva un mercatino che vendeva di tutto, dai vestiti ai libri.  Kishori, preso per mano William, lo trascinava qua e là come fosse un ragazzino al quale dare spiegazioni, esclamando ad ogni passo: “Guarda questo!”.

Nell’osservare la città con lo sguardo da adulta, si rendeva conto di quanto fosse imbevuta di stile “british”, non solo nelle costruzioni, ma anche in alcune manifestazioni culturali, nonchè per la lingua inglese che era parlata discretamente solo dalle persone che avevano avuto la fortuna di poterla imparare.

Il giorno successivo si recarono all’orfanotrofio.

Quando Kishori entrò, si sentì sopraffatta dall’emozione: il nodo che per anni le aveva serrato la gola improvvisamente si sciolse. Sentì le gambe deboli e il braccio di William fermo nel sostenerla. Ad accoglierla fu Ramita che li scambiò per una coppia intenzionata ad adottare. “Sono Kishori” disse in lingua originaria e con voce tremante.

Si abbracciarono scoppiando in lacrime.

Ramita le spiegò che Priya e Maya erano andate a lavorare in un altro orfanotrofio ed erano state sostituite da altre due signore.

Ramita le confermò che le notizie che Kishori aveva appreso dai media erano vere: Mumbai e l’India stavano cambiando, e insieme a loro la condizione delle ragazze appartenenti alle famiglie meno abbienti che ora potevano andare a scuola dato che da alcuni anni l’istruzione era stata resa obbligatoria.   

Alcune donne avevano cominciato a coprire qualche incarico nell’ impresa di famiglia e quelle appartenenti alle classi contadine erano impiegate nella coltivazione della terra.

Provò una grande gioia nel constatare che stavano avvenendo importanti cambiamenti, ma si rattristò quando Ramita le confermò che le condizioni dei contadini erano peggiorate sia perché mancavano mezzi e strumenti moderni di coltivazione sia per il fatto che molte terre venivano loro sottratte per lasciare spazio a nuovi poli industriali.

Di questa situazione volle rendersi conto di persona. Desiderava parlare con la gente del posto per sapere come stessero davvero le cose.

“Se vuoi puoi parlare con Shanti. La conosco, è molto ospitale” – le propose Ramita.

Lei e William raggiunsero un piccolo villaggio che si trovava nell’entroterra.

 Kishori chiese informazioni ad un’anziana del posto che le indicò una casa dove vide una ragazza molto giovane intenta a pulire il cortile. Le chiese se fosse Shanti.

“No, sono Sarasvati, sua sorella. Shanti è andata ad aiutare nostro padre e i nostri  fratelli nei campi. Se vuoi puoi parlare con me”.

Kishori le spiegò chi era. Furono accolti nella sua modesta casetta.

All’entrata c’era una stanza molto grande sulla quale se ne affacciavano altre tre.

Accanto al focolare una signora sulla quarantina che stava cucinando, fece segno di entrare.

“Vedete, qui il problema è che il terreno viene ancora coltivato alla vecchia maniera. Mancano attrezzature, concimi, diserbanti, opere di canalizzazione.

Il governo non investe nei campi, ma soprattutto nelle industrie, la costruzione delle quali implica che molta terra venga sottratta ai contadini, causando disoccupazione. Continuare in questo modo segnerà la nostra fine”.  Kishori rimase costernata: non si aspettava che dopo tanti anni lo stato dell’agricoltura versasse ancora in quelle condizioni. Nei villaggi il tempo sembrava essersi fermato.  “Sapete: nella nostra casa abbiamo un piccolo televisore e un radio, ma non sappiamo cos’è la modernità. Fanno vedere che usate spesso dei… telefoni volanti.

“I cellulari!” esclamò Kishori “Come questo, guarda!”.

“Un nostro parente, più ricco ne possiede uno, ma non è così bello”.

Kishori voleva sapere come mai lei e la sorella non si fossero ancora sposate.

“In realtà è già tutto pronto. I nostri genitori stanno mettendo da parte le ultime cose,  ma come vedete, siamo poveri e la famiglia dei nostri futuri sposi è piuttosto pretenziosa, così impieghiamo tempo per accumulare i beni da portare, come dite voi occidentali in dote ”.      

Kishori le mise a parte della sua esperienza di vita, del motivo per il quale si trovava a  Mumbai e dei suoi progetti di matrimonio con William. Prima di pranzo si congedò da loro.

Mentre camminava lungo le strade del villaggio, nel vedere i bimbi sgambettare e nell’udire la loro voce, risentì la sua confondersi con quella dei suoi coetanei, quando le governanti dell’orfanotrofio organizzavano escursioni fuori città.  La consapevolezza che quella gente continuava a soffrire nell’immobilismo e nella povertà le stringeva immensamente il cuore.

Avrebbe voluto portare un po’ di sano cambiamento in mezzo a persone che non sapevano cosa volesse dire nutrirsi a volontà, possedere tanti vestiti, lavarsi bene, avere un’automobile e tutte le comodità di cui lei aveva avuto la fortuna di godere.  La cosa che rendeva realmente felice quella povera gente era la fede e l’amore per le sue divinità.  Kishori da piccola ascoltava affascinata le storie che Maya e Pria raccontavano di un unico Dio che veniva chiamato con tanti nomi: Krisna, Visnu, Rama, Shiva, il quale aveva creato gli uomini ed era particolarmente vicino a coloro che lo pregavano. Aveva avuto modo di notare che questo Dio possedeva le stesse caratteristiche di quello adorato dalle popolazioni occidentali in termini di giustizia, amore e bontà.

Ricordava anche la teoria della reincarnazione e del karma secondo le quali l’anima continua a tornare nei corpi fino a quando ha imparato tutte le lezioni utili alla sua evoluzione.

Nel concentrare l’attenzione sull’argomento religioso, ebbe un moto di stizza nel constatare la discrepanza tra ciò che i testi e le regole prescrivevano in termini di umanità e amorevolezza e la realtà effettiva fatta di miseria, illusioni e inganni.

Non trovava affatto giusto che una minima parte della popolazione continuasse ad arricchirsi alle spalle della maggioranza, attraverso modalità ai limiti della legalità e della sopraffazione.

Nel suo piccolo avrebbe voluto fare qualcosa, tendere una mano alla sua terra e sollevarla da quello stato impietoso.

Sapeva che la sua sarebbe stata una goccia sperduta nell’oceano, una piccola voce in mezzo al frastuono, tuttavia mai come in quel momento non avrebbe voluto   abbandonare di nuovo la sua India e tornare ad infilarsi nel proprio comodo letto di false sicurezze. Tornati a Londra, le vennero in mente alcune idee e valutò a lungo il da farsi. Ne parlò prima con William il quale le diede tutto l’appoggio e poi espose la sua proposta al suocero che si prese un po’ di tempo per riflettere e alla fine fu d’accordo.  Il piano consisteva nello stipulare con il governo accordi per costruire una serie di infrastrutture e opere di canalizzazione nell’entroterra di Mumbai, finalizzate a migliorare le condizioni dei campi e dei villaggi. In cambio avrebbero collaborato con le industrie locali. Dopo alcuni mesi di trattative ebbero l’autorizzazione.

Kishori e suo marito si sarebbero occupati di amministrare la nuova impresa mentre il padre di William li avrebbe supportati.    

Per lei e la sua famiglia sarebbe stato un cambiamento radicale, sotto alcuni punti di vista rischioso, ma che forse avrebbe fornito l’esempio per un nuovo modo di comportarsi. E ora si trovava in una nuova casa, in un contesto completamente diverso da quello al quale era abituata, a distanza di un anno da quando aveva lasciato Londra.

“Come stanno procedendo i lavori? Si ritiene soddisfatta?” – le chiese il giornalista.

“ E’ presto per dare una risposta, ma per ora sono contenta.”

“Ha apportato un grosso cambiamento nella sua esistenza e si è messa in gioco in un modo che altri non avrebbero osato. Non ha paura?”

 “Le parlo con molta sincerità: questa forse rappresenta per me la sfida e la scommessa più grande della mia vita.

Venticinque anni fa ho lasciato il mio Paese sperando di stare meglio grazie all’affetto di una famiglia e di una terra che mi ha accolta e voluto bene.

Nei confronti dei miei genitori e dell’Inghilterra nutro un’immensa gratitudine, perché è proprio grazie a loro, agli studi che ho fatto, all’emancipazione che ho avuto, nonché alla maturità conseguita con l’esperienza, che mi sono potuta rendere conto di quanto meraviglioso sia il mio Paese e di quanta cura e dedizione abbia bisogno, concetti che solo figli devoti e riconoscenti possono comprendere.

L’India mi ha generata, mi ha nutrita, in lei affondano le mie radici, lei è mia madre e non la posso abbandonare ora che ha bisogno di aiuto”.

Nel sentire quelle parole, il giornalista commosso, smise di prendere appunti e la guardò. I suoi occhi scuri e profondi si persero per un attimo in quelli di Kishori, marrone – verdi.

In quella giovane, minuta e coraggiosa donna brillava una luce particolare, molto bella, diversa da quella che era abituato a vedere nello sguardo altrui, una luce fatta di autentico amore, che sarebbe potuta diventare un faro per tutta l’India.            

LA VALIGETTA

Bruno Ranieri

In un bar si riunirono cinque amici. Cinque colleghi di lavoro. Il barista non fece caso a loro, poiché sembravano dei bravi ragazzi che stavano soltanto facendo colazione. Ma i ragazzi stavano in realtà discutendo sui preparativi di un colpo. Un colpo grosso. Non li avrebbe di certo condotti alla pensione, ma un colpo grosso è sempre un buon colpo. Se si è del mestiere.

Ian, il capo gruppo, era piuttosto paranoico e come tale prendeva sempre in considerazione ogni precauzione. Mentre finivano di bere il caffè, John stava facendo un rapido riassunto del colpo. In una zona lontana dalla civiltà, due gruppi di mafiosi si sarebbero incontrati il giorno successivo, per effettuare uno scambio di droga e denaro. John riceveva spesso soffiate. L’idea era semplice: presentarsi sul luogo dell’incontro, eliminare tutti i membri di entrambi i gruppi, e rubare sia soldi che droga. Andare al rifugio per poi spartirsi il tutto.

Il loro rifugio era una casa abbandonata, isolata e quasi invisibile per via della sua ubicazione e per la vegetazione che la copre quasi interamente. Adam, il pacifico del gruppo, cercò spesso di trovare altri modi per fare fortuna, ma a quanto pare, uccidere delle persone, era al momento il loro unico lavoro.

Ian, John, Brad, Adam e Simon, l’indomani mattina avrebbero tentato il colpo.                                                                                                        Alle ore 07.00 del mattino seguente, erano tutti in macchina ad aspettare che arrivassero i mafiosi. Quest’ultimi si presentarono in perfetto orario. Quando i cinque videro la droga e la valigetta dei soldi, scesero dalla macchina e armati fino ai denti, fecero un massacro. Come già detto, la zona era lontana dalla civiltà, nella macchia. Una zona perfetta. Li, nessuno avrebbe sentito gli spari.

Purtroppo i ragazzi non tennero conto di un importante particolare: già da tempo la polizia stava cercando di incastrare quei mafiosi, ed era già al corrente dello scambio. Cosi, inviarono un infiltrato, che si sarebbe mischiato tra loro e al momento dello scambio avrebbe tirato fuori il suo distintivo e una volta ricevuta la frase in codice la polizia sarebbe arrivata sul luogo. Ma non la ricevette mai. L’infiltrato morì prima di poterlo fare e dopo aver ucciso tutti quanti, uno dei nostri amici vide il distintivo dell’infiltrato. Capirono subito chi fosse quella persona che avevano appena ucciso e sapevano che sarebbero dovuti sparire il prima possibile.

Mentre continuavano a fissare il corpo del poliziotto, videro che si muoveva, era ancora vivo. Stavano discutendo su chi doveva dar lui il colpo di grazia quando sentirono in lontananza le sirene della polizia. Ma non potevano lasciare li il poliziotto col rischio che si sarebbe ripreso e avrebbe parlato. Decisero così di dividersi e di riunirsi tutti al rifugio. Sotto suggerimento di Ian, John e Brad presero il corpo esanime del poliziotto e lo caricarono sul loro furgone. Ian e Adam corsero sulla macchina, Simon si perse nella confusione e restò nascosto. Ian e Adam portarono con loro la valigetta e la droga. Credendo che Simon fosse stato preso dalla polizia, decisero di andarsene. Riuscirono così a scappare senza farsi vedere dalla polizia. Brad e John, si diressero verso una spiaggia isolata. Scesero dal furgone e finirono il poliziotto. Decisero di occultare il cadavere, nascondendolo nel bosco. Nel frattempo Ian e Adam, stavano recandosi al loro rifugio. Avevano lasciato ormai da una decina di minuti la zona rossa, quando davanti ai loro occhi si presentò un posto di blocco. La polizia ordinò a Ian di fermarsi, ma erano in possesso di droga e non potevano rischiare.  L’impavido capo del gruppo, istintivamente accelerò e non si fermò al posto di blocco. Ma uno dei poliziotti, prese la sua pistola e sparò contro la macchina e colpì il sacchetto di polvere bianca facendolo esplodere. I due poliziotti non fecero in tempo a seguire la macchina dei criminali, ma si collegarono via radio alle altre pattuglie. A breve le strade sarebbero state piene di poliziotti. 

Nello stesso momento due amiche erano in un bar a fare colazione insieme.  Lo stesso bar dove il giorno prima Ian, John, Brad, Simon e Adam progettavano il colpo.  Le due ragazze: Jasmine e Sara si erano sedute da poco, quando Jasmine raccontò alla sua amica di essere stata lasciata dal ragazzo con il quale si frequentava. Sara la confortò dicendole che al mondo ce ne sono tanti altri migliori di lui. Le ragazze finirono di fare colazione e si salutarono. Jasmine uscì per prima dal bar. Sara rimase a pagare, poi uscì anche lei.

                                                                                                                                                                             Fu allora che Brad e John, per sfuggire alla polizia, decisero di prendere una strada secondaria, quella che passava davanti al bar. E fu allora che, tra chiacchiere spaventate e avvistamenti di poliziotti, John sterzò bruscamente il volante, prendendo in pieno Sara. Scendendo dal furgone, Brad vide che non aveva riportato gravi ferite, quindi decisero di non chiamare i soccorsi e di portarla con loro. Deviarono e andarono al rifugio, dove dopo alcuni disaccordi, decisero di lasciarla nella casa abbandonata. Brad sarebbe rimasto con lei nel caso si fosse svegliata e John sarebbe rimasto a disfarsi del corpo del poliziotto. Si avviò verso il bosco, e quasi non gli prese un colpo quando vide Simon venergli incontro.

Ian e Adam arrivarono finalmente al rifugio, con la loro macchina bucata dai fori dei proiettili dei poliziotti. Brad apprese la notizia da Ian: la cocaina era ormai inutilizzabile. Sparsa per tutta la macchina e irrecuperabile. Metà del bottino andò perduto. Quando Ian entrò nel rifugio e vide la ragazza, che intanto aveva ripreso conoscenza, andò fuori di testa. Le puntò contro la pistola, perché non doveva essere lì in quel momento. Ma Brad riuscì a calmarlo, spiegandogli come andarono le cose. Ian non si fidava, credeva fosse una spia. Ma comunque, per il poco tempo che sarebbero dovuti rimanere vicini, cercò di tollerare la sua presenza.

John e Simon finirono di seppellire il corpo del poliziotto. Brad, Ian, Adam e Sara rimasero affacciati al balcone in attesa che John tornasse,  per dividere i soldi nella valigetta.  Brad inizialmente volle aprire la valigetta per vedere i contanti, ma Ian glielo vietò, dicendo che la valigetta avrebbero dovuta aprirla tutti insieme. Temendo che Ian volesse tenersi i soldi tutti per se Brad andò fuori di testa e minacciò il suo compagno. Mentre Adam cercò di calmare le acque Ian rispose tirando fuori la sua pistola.

John e Simon arrivarono al rifugio e cercarono di far ragionare i loro amici. La situazione era questa “Le strade erano piene di poliziotti.” Dividersi i soldi e rimettersi in macchina, sarebbe stata una mossa veramente stupida. Nessun posto era sicuro come quel rifugio, quindi decisero di rimanere li dentro e di uscire solo il giorno successivo.

Chiusi in quel posto senza mangiare, senza corrente, senza svaghi, non avevano un gran da fare. Affacciarsi al balcone si poteva anche fare ma era comunque rischioso. Non restò loro che conversare. John decise di conoscere un po’ meglio Sara. Si scusò per averla investita con il furgone, le disse che era distratto perché in quel momento stava rimproverando Brad. Le disse che lui era un cretino perché aveva appena lasciato una ragazza, non poteva avere una relazione, con il tipo di lavoro che faceva. Le raccontò del tipo di vita che facevano loro come squadra, del colpo, della valigetta. In un momento di confessione John rivelò a Sara anche la strada da fare per arrivare al rifugio. Gli altri nel frattempo stavano parlando per gli affari loro. Ma ci fu un momento in cui Sara prese il suo cellulare (era proibito avere cellulari accesi, per via del gps) e scrisse alla sua amica Jasmine dove si trovava e le disse della valigetta contenente i soldi. In un momento di noia decisero tutti insieme di andare a pulire la macchina, e vedere se si poteva ricavare qualcosa dalla cocaina sparsa tra la polvere. Era ormai mezzogiorno inoltrato e tutti avevano fame.  Cosi si decise che Brad, Adam e Simon potevano andare al bar a piedi a prendere qualcosa da mangiare. E finito di pulire la macchina gli altri sarebbero tornati nel rifugio. Lungo la strada Brad si fermò per urinare mentre Adam fece vedere a Simon un sacchetto di cocaina preso di nascosto. Entrambi non erano d’accordo nel buttarla tutta quanta, volevano tenerne un po’. Almeno la loro parte. Ma tennero tutti gli altri, compreso Brad, all’oscuro.

Nel rifugio, Ian e John stavano parlando di affari loro mentre Sara chiedeva il permesso per uscire sul balcone. Per John non era un problema, ma Ian era infastidito da quella ragazza, non si fidava. Uscita di fuori prese nuovamente il suo cellulare e chiamò la sua amica Jasmine e le disse che per trovare quel posto le sarebbe bastato seguire tre ragazzi che andavano verso il bosco. Ian si accorse che stava parlando al telefono cosi corse di fuori, e furioso strappò il telefono dalle mani della ragazza. Ma Sara rispose che non doveva preoccuparsi “Era mia madre, le ho detto che sono a casa” e quando Ian mise il telefono all’orecchio senti che effettivamente era la voce di una donna.  Quando Brad, Simon e Adam tornarono, finalmente poterono mangiare tutti. Ma John vide una cosa che non avrebbe voluto vedere: tra le cose di Adam, dei sacchetti di cocaina. I due cominciarono a prendersi a spinte e a parole fino a che per errore John sparò a Adam. Accorsero tutti, videro cosa era successo e videro i sacchetti di cocaina che Adam aveva nascosto per se. “I traditori devono essere puniti” questo è ciò che ha giustificato John a sparare al compagno. La tensione era cresciuta a tal punto che ormai nessuno osava parlare più. Ian sospettava che Sara fosse stata mandata lì da qualcuno di loro, per sabotare l’operazione e per rubare la valigetta. Brad e Simon, pensavano che John avrebbe ucciso anche loro.  Erano tutti intorno al tavolo in silenzio quando sentirono un rumore provenire da fuori. A meno che non fosse un animale, sarebbe stato anomalo sentire dei rumori in quel posto. Tutti agitati, si alzarono di scatto. Brad e John corsero di fuori, Ian ordinò a Sara di non muoversi poi ordinò a Simon di controllarla. Brad vide da lontano una persona: era Jasmine. E poi disse a John di conoscerla. Era la ragazza che aveva scaricato. Le paranoie di Ian trovarono riscontro. Poi fece un ultima prova del nove. Prese il cellulare che aveva sequestrato a Sara e richiamò l’ultimo numero composto. Da lontano vide che la ragazza che stava venendo verso di loro rispose al telefono “Sara? Sei tu? Sono arrivata!” Ian prese la pistola, tornò dentro e sparò a Sara. In quel frangente, Simon credeva che Ian fosse impazzito cosi cerco di sparare a Ian, ma quest’ultimo fece prima di lui. E anche Simon morì. John e Brad sentirono gli spari e corsero dentro. Ormai per Ian erano tutti traditori cosi sparò anche a John, ma nel momento in cui sarebbe stato il turno di Brad la pistola di Ian finì i colpi e Brad sparò per primo. Quest’ultimo restò da solo nella stanza piena dei cadaveri dei suoi amici. Senza troppe storie, andò nella stanza dove giaceva il corpo di Adam, prese i sacchetti di cocaina, poi lascio la pistola su un mobile e andò verso la valigetta. Quando si voltò vide Jasmine che gli stava puntando la sua pistola contro. La ragazza era arrabbiata con lui, perché la aveva lasciata senza motivo, e per essere diventato un assassino e un criminale. Brad tentò di corrompere la ragazza offrendole i soldi nella valigetta. Jasmine esitò, ma alla fine sparò. Lasciò cadere la pistola per terra, prese la valigetta dei soldi e se ne andò.

 

 

UNA NUOVA VITA

Francesco Ranieri

 

1

Luke correva sempre più veloce, più di quanto le sue zampe gli potessero permettere di correre, ma ormai sembrava tutto inutile. Affannato e stanco, inseguiva quella macchina rossa da oltre cinque minuti, in direzione della statale 512, in direzione di chissà dove, ma di certo, non nella sua direzione.

Rallentò l’andatura, iniziò ad andare sempre più lentamente, ansimando sempre di più. Ora si era definitivamente accasciato a terra, privo di energie, incapace di compiere nessun altro passo. Si era arreso a quella tremenda verità, all’idea di una nuova vita, di una nuova situazione che difficilmente

sarebbe riuscito ad accettare, forse tra una settimana, forse tra un anno.

Forse mai…

Non avrebbe mai più rivisto i suoi padroni, e nemmeno il suo migliore amico Jack. Lo stesso Jack che cinque anni prima aveva trovato un Border Collie di appena due mesi vicino ad un cassonetto della spazzatura, malconcio e affamato. Jack lo aveva preso, e guardandolo negli occhi, sia lui, un uomo sui trentacinque, che il piccolo cagnolino, si sarebbero voluti bene per tantissimo tempo. Magari anche per l’eternità. Ma a quanto pare cosi non fu…

Luke, dopo aver osservato quella macchina che lo aveva portato a giocare nel parco soltanto due giorni prima sparire all’orizzonte, tentò un gesto disperato.

In segno di saluto, Luke alzò il muso al cielo e ululò con tutto il fiato che aveva nei polmoni. Il suo ululato si perdeva nella prateria sconfinata dove era stato abbandonato.

2

Ehi, Luke, vieni qui da noi!” lo chiamavano delle voci. Luke, arresosi, camminò sconsolato verso la casa dei nuovi padroni che lo incitavano a venire verso di loro. Il padre della famiglia, un certo Ralph, si avvicinò al cane e gli disse “Non preoccuparti, con noi starai bene, vedrai”. “Si!”, confermava un bambino di 12 anni, probabilmente uno dei due figli “vieni a giocare con noi, Luke!”. “Al tempo, al tempo” gli rispondeva la madre, una donna sui 40 anni che ne dimostrava almeno venti “Diamogli il tempo di ambientarsi, non lo spaventiamo.” “Andate tutti al diavolo” avrebbe voluto rispondergli il Border Collie. Era la solita frase che spesso Jack diceva a quelle persone che di tanto in tanto gli si presentavano alla porta proponendogli di parlare di Dio. L’aveva sentita cosi tante volte che se avesse avuto il dono della parola l’avrebbe saputa pronunciare perfettamente con lo stesso accento Yankee che aveva il suo vecchio padrone. Ah quanto gli mancava…

Mentre Ralph gli teneva la porta aperta, Luke mise per la prima volta la sua zampa in un ambiente caldo e (maledettamente) accogliente, sembrava il posto giusto per farci stare un cane delle sue dimensioni. “Forza, entra dai!” gli disse in tono amichevole la donna della famiglia. Poco prima di entrare definitivamente in casa, Luke girò la testa un’ultima volta in direzione di quella strada, sperando di vedere tornare la macchina rossa. Non vide nulla se non alberi verdi e prati sconfinati.

Con la coda tra le gambe, Luke camminava a passi lenti e si acquattò in un angolo del salotto, deciso a rimanere li per il resto della giornata. “Ma… che cosa fai?” gli disse una voce. Il cane non aveva alcuna intenzione di rispondergli. “Lascialo stare, Louis” disse Ralph strattonando il figlio “Non vedi che è triste? diamogli il tempo di ambientarsi.” Detto questo, il figlio si ritirò in camera sua, mentre Ralph restò li a guardare il cane accucciato all’angolo. Si piegò sulle ginocchia “Ehi,campione” gli sussurrò. A quelle parole, Luke mosse le orecchie, captando quei suoni che gli erano famigliari. Era lo stesso modo con cui Jake lo chiamava quando voleva giocare con lui a prendere la palla. Come una freccia, gli tornarono alla mente tutti i suoi ricordi, e a seguitò di ciò il Border Collie iniziò a piangere. “Dai, non fare cosi..” disse con gli occhi bagnati dalle lacrime, era molto sensibile al dolore degli animali “Ti capisco sai?” disse asciugandosi con la manica della camicia “Anche io, in un certo senso, ho perso qualcuno in passato…” e si girò a guardare la foto incorniciata sul mobile di un bambino di quattro anni. Si chiamava Jimmy. “Ma non devi disperare. Dopo una perdita c’è sempre qualcosa di nuovo. Si, magari non sarà la stessa cosa, ma meglio di niente,no?” disse ammiccando al cane. Il Border Collie alzò gli occhi, e smise di piangere. Magari era meglio cosi. Magari era solo una questione di tempo. Magari avrebbe apprezzato ben presto quella nuova vita.

3

Circa un mese dopo, Luke rincorreva allegramente i due bambini, ogni tanto uno dei due si ruzzolava a terra insieme al cane, e ogni sera tornavano a casa sporchi di terra e fili d’erba. A Ralph spettava il duro compito di lavarli tutti e tre.

Una mattina d’estate, mentre Ralph leggeva il giornale e sua moglie annaffiava il prato, un rumore in lontananza squarciava il silenzio. Era una famiglia piuttosto solitaria, non ricevevano spesso visite, perciò per loro fu una sopresa vedere spuntare una macchina all’orizzonte. Luke, che poco prima dormiva, alzò immediatamente la testa. Il Range Rover parcheggiò poco distante da loro, e un uomo smontò dalla macchina. “Lo conosci, Jane?” “No, non mi pare” repicò la moglie. Luke si mise sull’attenti, gli sembrava di conoscere quella persona, ma non ne era sicuro. L’uomo si tolse gli occhiali da sole, e fischiò al cane. Luke riconobbe quel particolare suono, e scattò in direzione dell’uomo. “Luke,NO!” gli gridarono dietro i due sposini, ma Luke non gli diede attenzione. Il cane balzò addosso all’uomo, che cadde all’indietro. “Oh mio Dio” disse Jane con le mani tra i capelli. Ralph invece, aveva capito. Il cane esplose di gioia, e riconobbe il suo padrone. Jake piangeva dalla gioia, e Luke gli leccava via le lacrime. Si salutarono per ben tre minuti, dopodichè Jake si rialzò e lentamente si avvicinò alla coppia sposata, con Luke che gli ronzava intorno facendogli le feste. “Ehi, ma lei è il signor Jake, quello che ci ha portato il cane” disse Ralph, e Jake annuí. “Mi dispiace per Luke, ma ho dovuto affidarlo a voi, eravate in cerca di un cane e mi sembravate brave persone”. “E lo siamo” rispose sorridendo Jane. “A Luke gli manchi parecchio” gli disse Ralph. “Ogni sera, dopo cena, esce di casa e si accuccia fuori dal cancello, aspettando qualcuno. Probabilmente aspettava lei”. Jake guardò Luke, e lo strise a sè “Perdonami Luke” disse con la voce rotta dal pianto “Mi dispiace tanto… Sappi che io non ti ho abbandonato” al che intervení Jane “Ma allora perchè ha deciso di affidare a noi il suo cane?” Jake si rialzò “Per problemi di lavoro. Il mio capo mi aveva offerto un lavoro all’estero, e dato che avevo bisogno di soldi, di riflesso accettai. Poi ripensai a Luke… sapete, io non sono sposato, e non sapevo a chi affidare Luke… ma sapevo che voi eravate in cerca di un cane, per cui ve l’ho affidato. Ma mi mancava troppo, perciò ho lasciato il lavoro e sono tornato indietro…” guardò in cielo “Ma ora non posso pretendere che voi mi ridiate il cane…” disse in tono un pò troppo speranzoso. Ralph e la moglie si guardarono “Io un’idea ce l’avrei” disse uno dei due.

A Jake proposero di restare con loro fino a quando non avrebbe trovato un nuovo lavoro, ma col tempo lui e Ralph diventarono ottimi amici, e Jake accettò l’offerta di stabilirsi definitivamente lí. Luke aveva finalmente trovato tantissimi amici con cui giocare.

 

 

LE AMICHE DE BOSCO DI COGOLETO

Maurizio Rosi

Ci troviamo a Genova e le protagoniste del nostro racconto sono Chiara, Laura e Marta, sono tre studentesse della facoltà di architettura  della città, la loro università è sita in via Stradone di San Agostino 11, si trova sulla collina di castello nei luoghi più antichi della città, proprio a ridosso del porto, fu l’architetto Ignazio Gardella che decise di far sorgere lì, nel lontano 1990 il centro universitario, anche per integrarlo completamente con il centro storico, da lassù, se si guadagna una posizione favorevole, si può direzionare lo sguardo sul mare, i tetti degli edifici, di fatti, celano la modernità del porto, e lo sguardo si può riempire dell’azzurro del mare e del cielo, elementi che fecero impazzire il grande Monet nel cercare di riprodurli sulle sue tele, quando nel 1884, nel suo periodo  ligure, decise di venire a dipingere i colori del sud, era in piena attività di pittura en plein air. Torniamo alle nostre tre amiche studentesse, loro prima dell’università non si conoscevano, hanno avuto modo di incontrarsi a Genova frequentando lo stesso corso universitario, nessuna di loro era del posto ma di qualche paesino fuori città. All’università le tre amiche non passavano inosservate, non perché vestissero in modi particolari da attrarre l’attenzione ma proprio perché oggettivamente erano delle belle ragazze e al di là delle loro qualità morali rubavano l’occhio anche a chi era più distratto, ora poi, che tutte e tre erano libere sentimentalmente, i corteggiatori erano all’ordine del giorno ed anche se alle tre ragazze queste attenzioni facevano piacere un po’ di disagio alla fine glielo creavano. C’è da dire una cosa, le tre amiche non erano più fidanzate, e per questo si frequentavano più spesso tra loro, avevano iniziato pure a vedersi ora a casa dell’una ora a casa dell’altra per cenette fatte di ricette delle loro rispettive famiglie, infatti  Chiara aveva la madre siciliana, il padre di Laura era napoletano e amante della cucina, la nonna di Marta le aveva insegnato a realizzare torte dolci e salate di ogni tipo e gusto, nonostante questo riuscivano a rimanere tranquillamente in perfetta forma, vuoi l’età, vuoi il fatto che tutte e tre erano delle sportive e, mettiamoci pure che nessuna aveva l’auto, ma si muovevano con i mezzi o a piedi, sia per piacere che per la loro convinzione di difesa dell’ambiente ad ogni costo. Quando scoppiò l’incendio del bosco di Cogoleto le tre ragazze si rattristarono profondamente proprio per la loro sensibilità nei confronti dell’ambiente. L’incendio del bosco di Cogoleto durò una settimana e in quel frangente il forte vento tese a riattivare le ceneri nascoste sotto le radici di alberi e arbusti, provocando nuovi focolai, mote famiglie furono evacuate e tante attività commerciali danneggiate, non fu facile per i vigili del fuoco riuscire a domare le fiamme nonostante l’utilizzo di elicotteri e canadair. Chiara, Laura e Marta vollero andare di persona al bosco dopo che le fiamme furono domate, per rendersi realmente conto con i propri occhi del disastro che si era consumato, l’aria lì  testimoniava ancora il passaggio delle fiamme e il vento faceva alzare la cenere che abbondava in ogni dove, ciò che rimaneva di alcuni alberi erano dei trochi con alla sommità delle ramificazioni accennate, tanto che si poteva immaginare che invece di chiome di alberi, quelle strutture fossero le radici delle stesse piante, che per qualche assurdo e folle gioco erano finite all’aria invece che sotto terra, che tristezza, che luogo desolato. Le tre ragazze parlavano tra loro in silenzio come se si dovesse aver rispetto di chi era da poco scomparso e si era in presenza sia del feretro, che dei sui famigliari, il loro spessore culturale e morale tenne lontana l’idea dello scatto del selfie, rito che oggi è una macabra abitudine dei più in luoghi dove sono avvenuti disastri e sciagure. Queste tre donne se ne tornarono alla loro quotidianità, ma in cuor loro sentivano dal profondo che avrebbero dovuto, o almeno avrebbero potuto tentare di far qualcosa, non subito, non all’istante, ma qualcosa andava fatto. Quell’immagine grigia, triste e opaca del bosco  carbonizzato, andava ricordata ma anche a breve compensata con altro, ed in particolare con immagini e colori che la Liguria, specie nei periodi caldi sa sempre dare, così, le tre giovani, fecero qualche scappatella nei mercatini rionali genovesi, da quello che sorge al Bolzaneto, o quello che sta alla Certosa, sino a Piazza Dinego per poi arrivare a Piazza Giusti o a Sestri Ponente; questi posti furono una bella medicina, fatta di profumi, colori di frutti e sapori, in più le voci dei compratori, unite a quelle dei venditori nei mercati furono di enorme contrasto al silenzio e alla squallida pace che la mente delle studentesse conservava del bosco di Cogoleto. Chiara, in seguito, parlò alle sue due amiche dei coniugi brasiliani, ed in particolare del signor Sebastião Salgado che con sua moglie Lélia Deluiz Wanick Salgado in venti anni avevano ripiantato due milioni di alberi nella Valle del fiume Doce, fra gli stati di Minas, Gerais ed Espírito Santo. Laura e Marta non ne sapevano nulla di questa storia, e rimasero colpite che solo due persone si fossero rese capaci di un’opera del genere, così Marta disse: “Noi siamo addirittura in tre, vuoi che non ci riusciamo?!”, l’esternazione suscitò l’ilarità delle altre due, ma tornate serie continuarono a pensare a qualcosa di concreto, nulla uscì fuori quella sera ma si promisero di tornare sopra all’argomento in un altro momento. La bellezza evidente delle tre ragazze era un dono ma anche una scocciatura perché, come avevo già detto, non passavano mai inosservate tant’è che a tenere lo sguardo basso per non incontrare quello di un uomo e fargli magari credere di essere interessate a lui, alla fine le scocciava, così, da qui nacque l’idea di Marta da correlare all’incendio di Cogoleto, Marta pensò e disse:” Se tanti sono attratti da noi, allora sia questa la soluzione, allora che il nostro dono estetico sia di aiuto a qualcosa di più grade di noi”. Marta pensò di emulare quello che avevano fatto altre ragazze prima di loro e cioè fare un calendario sexy per beneficenza, come le maestre di sci di Cortina che con un loro calendario finanziarono la Croce Bianca di Cortina. Laura e Chiara da prima perplesse sull’idea dell’amica, furono dopo possibiliste sino poi a dare la loro disponibilità. Laura pensò di coinvolgere dei centri commerciali come punti di vendita mentre Chiara aveva già in mente a chi affidarsi per delle foto professionali. Chiara, in questo periodo, aveva iniziato a subire delle attenzioni pesanti da parte del figlio del proprietario del pub presso il quale lavorava e i suoi rifiuti erano sistematicamente ignorati, la situazione era diventata insostenibile per la ragazza, così decise da prima di licenziarsi e poi di mettere a disposizione la sua liquidazione ottenuta dal fine rapporto lavorativo presso il pub, per le prime spese del progetto, era poco, ma bastava per iniziare, anche se mancava molto alla fine dell’anno, le tre amiche decisero da subito di partire con quest’iniziativa per poter avere più tempo per distribuire i calendari. Marta contattò i vivaisti della zona e si fece fare dei preventivi per la fornitura di alberi uguali a quelli andati in fumo nel bosco di Cogoleto e ottenne prezzi di favore proprio per il fine del loro acquisto. Il fotografo non volle un euro per il suo servizio fotografico ma pretese almeno di apporre la firma del suo studio fotografico sulle dodici foto del calendario. Il tipografo offrì le prime cento copie gratuitamente alle tre ragazze, come suo contributo al progetto, così che con gli eventuali ricavi dalle prime vendite, si potesse pagare anche l’odine delle successive ristampe. Le vendite furono precedute da qualche polemica, la stampa locale si schierò tutta a favore dell’iniziativa delle ragazze, anche se le solite voci fuori dal coro ebbero il loro breve momento di gloria. In seguito a quest’iniziativa, il rimboschimento dell’area non fu assolutamente impressionante ma una vasta area già aveva ripreso le sembianze che meritava, fu il punto di partenza, la dimostrazione che stare solo con le mani in mano, ad aspettare che quelli che contano più di noi a livello burocratico, non è spesso la scelta più giusta.

 

 

IL TAXI-(CLAUDIA)

Roberto Toppi

1-Il taxi

 

Massimo aveva 50 anni,e faceva il tassista praticamente da ragazzo appena 20 enne, e prestava i suoi servizi a bordo di una vecchi Fiata 124,che per motivi di affetto non volle mai cambiare.

L’amava come fosse una persona a tal punto da dargli un nome,”Claudia”.

Quella macchina era sempre perfetta,e levando l’atrezzatura digitale di servizio dei tempi modermi,i vari tassametri e sistemi di pagamento ,gps ecc,per il resto era praticamente uscita nuova dagli  anni 70.

Trenta anni di vita,ne avevano vissute di situazioni Massimo e Claudia

I colleghi non so se addirittura per velata invidia

“Ao ma quanno te lo cambi quer catenaccio”

Eppure signori miei Claudia aveva ancora un discreto successo forse per gli amanti del retrò o altro,ma spesso veniva scelta a discapito di Tassi ipertecnologici.

Se prendevi Claudia,arrivavi sempre a destinazione.

Ultimanente poi,succedeva a volte una strana cosa,quando stava per arrivare qualche cliente che poi risultava simpatico,sportello bagagli e laterale destro si aprivano spesso da soli.

Massimo all’inizio per nulla turbato,pensando fosse un mollone di ritorno,o botte di vento,cercando di razionalizzare si tranquillizzava.

Comunque notò un paio di volte che si verificarono gli episodi,c’era un signore sui 50 vestito di nero,vicino al punto Taxi che scriveva su un taccuino per appunti.

Claudia in codice radiotaxi era sierra21.

Massimo era talmente ossessionato da Claudia che quando pioveva pensava,

“Poverina guarda l’acqua che se sta a pià”,

cose del genere per le piu svariate condizioni atmosferiche.

Economicante stava benino,singolo, ancora aspettava l’anima gemella.

Un giorno d’autunno,dall’agenzia radiotaxi,ricevette una chiamata di sera a casa,

“Massi,te voio fa guadagnà na bella corsa”

“Dimme Sergiè”

“Ciò uno strano che per lunedì vole annà a Padova cor tassì,nun cè se po’ crede,

m’ha chiesto proprio der tassì tuo,Claudiuccia sta bene si”

“Sergì,Claudia è nova”.

Lunedì 17 ottobre da Piazzale degli eroi,ore 08:00,arriva il cliente,

il signore sui 50 vestito di nero,Massi scende,va per prendere l’unico bagaglio a mano

quando Claudia………

Sportello laterale destro aperto da solo,portellone posteriore e stavolta botta di clacson

2-Partenza

 

Per un viaggio così lungo,un po’ di conversazione era inevitabile,e Massimo non potè non notare che il signore era interessatissimo alla macchina,a tal punto che –

“Giusto per farle sapere,Claudia non è in vendita”

“Ah le ha dato anche un nome,molto interessante la cosa,mi scusi se non sono troppo indiscreto,è da molto che apre gli sportelli da sola,luci tergicristalli eccetera?”

“L’ha notato anche lei?Guardi stia tranquillo non ha quasti meccanici sono solo….”

“Stia tranquillo Massimo,lo so che è perfetta,ho solo notato questi emh,come dire

Episodi caratteriali della macchina”

“ah ok”

Massimo tra se pensò

“Questo me sa è mezzo matto,episodi caratteriali,bo?A Clà l’hai sentito questo,

mo nun poi manco fatte na sonatina che te vonno psicanalizzà”

E si mise a ridere da solo

“Perché ride scusi,ho detto qualcosa di strano?”………….

Autostrada del sole,prime uscite,velocità di crocera 90 orari,e all’altezza di Fabro,

il signore chiede una pausa in un autogrill.

Massimo intanto mentre rabbocca il serbatoio,anche perché Claudia tanto caruccia e tanto cara,ma quanta ne ciucciava di benzina,si accorge che anche i parasoli si aprono e chiudono da soli.

Non sapendo dare una spiegazione,decise di ignorare completamente per il momento la cosa.

Il signore torna e Massimo sente il bisogno di andare in bagno.

“Gli spiace se vado a prendere anchio un caffe?”

E mentre camminava si gira e vede il tizio di nuovo prendere appunti.

Un caffè decente per essere un autogrill,poi in bagno vede a terra una lettera.

Si inchina la prende,e legge il destinatario,senza indirizzo e senza mittente ma semplicemente:

“A Claudia”

3-La lettera

 

Incuriosito,quando rimonta in macchina la apre e dentro cè un foglio completamente in bianco.

Il signore come se sapesse già …..

“Trovato qualcosa?”

Massi mentre rispondeva di aver preso da terra semplicemente un foglio,rigirandolo tra le mani,rimane tra lo stupefatto e impaurito vedendo una scritta che appariva da sola

“Cercala”

“No è che…,forse inchiostro simpatico non so,cè una scritta che prima non c’era”

“Un nome di donna”

Rispose il signore più come affermazione che come domanda.

Il viaggio riprende,il signore legge e Massi guida e pensa

“Ciavessi io quarche potere,a Cla apri e chiudi quanno te pare,tergicristalli mo la lettera,famo na prova,apri il cassettino daie,a ecco niente poteri”

E sorridendo pensò che si trattava di eventi strani ma logici quando il signore.

“Perché non si è mai sposato se posso chiedere?”

“Chiedere può chiedere,ma io ancora non gliel’ho ancora detto”

Replicò sorridendo e continuò

“Di avventure tante,poi capirà co sto lavoro”

Massi alternava un po’ di romanesco soft all’italiano e continuò

“Comunque,come si dice,non è scattata la scintilla giusta,sa non tanto per un discorso fisico,io penso le donne a modo loro sono tutte bellissime,che le devo dire forse ho un carattere un po’ particolare”

“In che senso?”

“E niente,prima,le affascina che non sono geloso,poi vai a convivere e gli rode che non sono geloso,e poi altre sfumature che non saprei dirle,sono troppo complicate per me,io so uno semplice,nà bella magnata,na passeggiata in moto,faccio pure un sacco di complimenti,nun me piaceno le discusioni ecco”

Il signore replicò

“In che senso”

“Le faccio un esempio,una m’ha lassato per troppo amore,dice ero troppo smielato,

vacce a capì.Io dico vabbè,e dopo tre mesi me ricerca lei,cè se po’ capì quarcosa?

Me so stufato a 50 anni de giocà a scacchi,vorrei una che ie ride sempre,che è pronta a fasse un viaggetto senza sta tanto a programma,e senza diete fasse delle belle magnate,cè?”

“Non mi pare un tipo di donna poi così difficile da trovare”

Un altro po’ di conversazione,i chilometri passano e all’altezza di Firenze Sud

“Altra fermatina?”

Massi prima di scendere,spinto da una curiosità riprendere in mano la lettera,di nuovo bianca,e mentre guarda appare un’altra scritta

“Ti aspetta”

4-Le sorrelle Fasolari

 

Mentre Massi stava rabboccando il serbatoio,e stranamente il signore si era messo stavolta seduto davanti,da una ventina di metri due signore sui 40 che sembravamo appena uscite da un film di Fellini,urlavano

“Scusiiiii,maschio senta”

Massi penso

“Ecco du caciarone romane e mo che vonno”

Le due erano vestine piu o meno provocanti con vestitini succinti e scarpe alte,una con due calzature di un colore diverso dall’altro,e una con una calza sola e una gamba nuda.

Robuste ma incredibilmente toniche e prosperose una mora e l’altra bionda avevano  acconciature diverse,

la mora con i capelli a caschetto neri corvini alla Valentina di Crepax e la bionda con capigliatura lunga fluente alla Anita Ekberg.

Arrivate vicino a Massimo,la mora gli chiese sorridendo

“Un Taxi sull’autostrada non ci posso credere,ci  puo’salvare perfavore?”

“In che modo vi posso aiutare?”

“Stiamo andando a Barberino e la macchina  ci ha mollato proprio qui,

e anche se cè un’officina non hanno il pezzo di ricambio,poi a Barberino un’amica domani ci riporta qui,sia gentile”

“Vede,anche volendo ho un passeggero,non si puo fare e non è corretto”

E mentre la bionda parla a bassa voce con la mora

“Ao lassa stà questo è matto,ma de chi sta a parlà”

Il signore si rivolge a Massi e gli dice

“Le faccia assolutamente salire la prego,pagherò anche la differenza mi fa molto piacere”

“Ok va bene,salite in macchina”

Claudia la macchina,apri gli sportelli posteriori da sola

“Ammazza che machinetta,che modifiche iha fatto?”

Ripartendo le signore si presentano a Massimo

“Piacere sorelle Fasolari”

“Piacere mio,sono Massimo,e voi di nome ?”

“Uno e due,nel senso Fasolari uno e Fasolari due e nun cè chieda niente la prego”

La uno era la mora e la due la bionda

“Come mai a Barberino”

La due rispose

“Abbiamo una trattoriola a gestione familiare a valle aurelia,ma spesso stamo in giro perché uno me se annoia,e diciamo per lavoro stamo anna a una manifestazione enogastronomica,vero Uno che fatica sto lavoro”

“Ao a spiritosa,quanno te dispiace anna in giro pure a te ve?A proposito e lei dove va?

“Sto portando questo signore a Padova”

Le sorelle si guardano stupite poi la uno sottovoce all’orecchio della sorella

“Chi sta a porta?”

Due gli fa un gesto di stare zitta e prosegue

 “A proposito di Padova,le do una dritta dove se magna proprio bene a Parma,tenga ie lascio direttamente il bigliettino,cè lavora n’amica de Roma,me raccommanno cè vada nun se ne pentirà”

Massi sorridendo

“Se si tratta de magnà,aggiudicato grazie,ma vado a Padova”

“Mbe,esci n’attimo per Parma magni e poi riparti che cè vo”

Commenta la uno

Continuarono a conversare per un po,poi arrivati a Barberino,all’uscita del casello c’era una persona ad aspettare le Fasolari e appena scese dalla Taxi la due

“Non so come ringraziarti,tieni qui ci sono i contatti per rintracciarci,semmai te va de magnà na cosa uno quanno ie va cucina proprio bene,poi siamo a Roma anche noi,magari ci si vede per un caffè dai”

“Si te te pii er caffe e io sempre a cucina ao”

Seguirono altri sorrisi e convenevoli e mentre Claudia in segno di saluto,tergicristalli impazziti su e giù,Massi ripartì.

Sulla lettera apparve scritto

“A Parma”

5-La Trattoria

 

Era l’ora di pranzo e vicino a Parma il signore se ne esce

“Senta chiamo io il suo ufficio radiotaxi per la differenza,che ne dice se andiamo a mangiare a Parma da quall’amica delle belle signore romane,pago io è chiaro”

“E come poter rifiutare un invito a pranzo,per lavoro poi”

Rispose ridendo Massi

Entrando a Parma,Massi prende il bigliettino delle Fasolari,legge e digita sul navigatore Via San Leonardo per raggiungere la trattoria a gestione familiare indicata dalle sorelle.

All’arrivo del ristorantino,Massi parcheggia in uno spiazale adibito dietro al locale,

vede la lettera sul cruscotto e gli dà un’ulteriore sguardo.

“Lei è qui”

Fa per girarsi e il signore non c’era più.

“Ma quanno è sceso,già è annato a magnà”

Massi scende ed entra nel ristorantino a cercare il signore.

All’interno non c’era molta gente,va verso la cassa e chiede a una signora anziana ,

forse la proprietaria

“Ha visto entrare un signore sui 60 vestito di nero”

“Guardi sono qui davanti alla porta da un po e non è entrato nessuno”

“Grazie,sarà in zona”

Rispose incredulo.

Fa un giro in torno allo stabile del signore neanche l’ombra,aquel punto telefona in sede.

“Pronto ciao,sono sierra21,massimo da una corsa particolare con pagamento già eseguito,mi passi Sergio perfavore”

Sergio

“Ao come vanno ste ferie Massimi?”

“Ma quali ferie,m’hai mannato a Padova a porta uno strano,siccome è sparito volevo sapè se ha pagato”

“Ma che te senti male,andove t’ho mannato?Ma che stai a di,te se preso na settimana de ferie,me stai a fa preoccupà”

Massi,adeguandosi alla situazione,ma con uno stato d’animo molto confuso,decise di adattarsi alla situazione solo per il momento e rispose.

“Ao ma che nun se po scherza,pensa che me credevo de guadagnà na bella cifretta”

“Nun te capisco,senti mo cio da fa,se ribbeccamo,ciao Massimi”

Alla parte opposta della trattoria c’era una piccola banca con annesso bancomat.

Attraversa la strada di corsa,e va a fare un estratto conto.

Lunedi’ 17 ottobre si trova un accredito di 2000 euro.

6-Claudia

 

Torna in macchina,e non sa se ridere o mettersi paura,ma avendo un carattere adattivo ad ogni situazione pensò.

“Avranno architettato tutti uno scherzo alla romana,aò non so arivato manco a Padova e m’hanno accreditato dumila euro,pure de piu di quello pattuito,ma va bene cosi”

Fa per mettere in moto la macchina per andarsene quando pensa

“Certo però pure la lettera che se scrive da sola?”

Con timore la prende in mano e di nuovo il foglio bianco,fa per tirare un sospiro di sollievo quando

“Entra,Claudia ti aspetta”

Adesso ad alta voce parlando da solo

“Ao e vabbè,avete vinto voi,me la sto a fa sotto,sai che cè cio pure fame,devo entra,e vabbè  entro e vado a magnà”

Poi si tranquillizzò pensando che la trattoria le era stata indicata dalle Fasolari,e due stupende come loro non potevano portare solo che buone cose.

Rientra,chiede alla signora che le indica un piccolo tavolo appartato ad angolo.

“Le mando subito la cameriera,intanto scelga quello che vuole”

Porgendogli il menù

“Hai capito le Fasolari,anvedi quante belle cose,e la pizza pure a pranzo,io me faccio na pizzetta e me rimetto in viaggio”

Quando dauna decina di metri arriva la cameriera e a massi quasi gli si ferma il cuore,stava venendo verso lui la donna dei suoi sogni

Con il classico vestitino semplice da cameriera in gonna nera e camicetta bianca,

la signora non piu giovane era di una bellezza particolare

Una treccia di capelli rossi lunghi dentro un cappellino,due occhi di un azzurro intenso su di un viso nello stesso tempo con lineamenti marcati ma dallo sguardo dolce,e un naso pronunciato come piaceva a Massi.

Fisicamente prosperosa

“Ha scelto qualcosa della casa?”

Anche con due parole,Massi riconobbe l’accento romano,e pensò

“Ma certo è l’amica delle Fasolari”

E in una maniera impacciata e emozionata quasi balbettando ordinò la sua pizza

Ormai mentre mangiava si era scordato del signore,della macchina che faceva cose da sola,della lettera,aveva concentrato il pensiero solo sulla cameriera.

Aveva pensato a tutti i modi possibili per interagire con la donna,quando a fine pasta nella maniera più ovvia se ne uscì così

“Scusi posso una domanda”

“Con piacere mi dica”

Sorridendo rispose la cameriera,che non facendolo vedere,Massi non gli era rimasto indifferente”

7-Ricordi

“Siete amica delle Fasolari?”

La donna completamente alla mano mentre si siedeva vicino a lui,inizio in un tono più confidenziale e parlando un po’ piu in dialetto

“Ma nun me di che conosci quelle matte di uno e due”

E non trattenne un sorriso di una bellezza sconvolgente

Si erano fatte le tre,la proprietaria disse alla cameriera non essendoci piu nessuno

“Io chiudo,ci vediamo stasera”

Li lasciò parlare e sorridendo se ne andò

La donna gambe accavallate,si tolse il cappellino e si sciolse i capelli che gli arrivavano alla schiena,una montagna di capelli rossi

Massimo era ormai del tutto rimbambito,e non essendo uno che gioca a scacchi con le donne,faceva trasparire tutto il suo imbarazzo

La donna,a cui questo gli piaceva tantissimo,e che a 50 anni si era stufata dei giochetti vari per essere rimorchiata,apprezzava la situazione e ruppe il ghiaccio

“Ao so solo capelli a ni”

“No scusami,non sono solo i capelli,e che lo so te l’hanno detto in diecimila,sei bellissima”

E balbettando

“Comunque sono Massimo e tu?”

“Piacere Claudia”

Massimo aveva avuto un solo amore alle medie,con una ragazzina dai capelli rossi e il naso grosso,che tutti chiamavano la nasona,e che lui trovava bellissima.

E all’unisono i due dissero la stessa cosa

“Sei Claudia della 3B”

“Sei Massimo della 3I”

Seguì un attimo di silenzio e mentre si guardavano Massi ruppe il ghiaccio

“Te ne sei andata via da Roma a 14 anni,non ti ho più scordata”

“Ricordi,mio padre era un militare e lo spostavano spesso,anch’io non ti ho dimenticato”

“Sei sposata”

“Qualche storia ma niente di più,e tu?

“E manco io Cla,te ne sei annata e chi me sposavo?

I due iniziarono a ridere,poi Massimo gli prese la mano.

Conversarono ancora per molto  ed emozionatissimi entrambi per essersi ritrovati

Decisero di frequentarsi

“Non ti voglio perdere un’altra volta,a Cla,me trasferisco qui se vuoi”

“Ma Fasolari Uno non t’ha detto niente?”

“Di cosa?”

“La settimana prossima,aprono un ristorantino di cucina regionale a Roma dalle parti di viale Marconi,e mi hanno chiesto di gestirlo,io ci sto pensando,non ho piu parenti ne qui ne a Roma,sono sola,ho qualche amicizia ma niente di che”

8-Il Ritorno

 

“A Cla,vieni a Roma con me subito domani dai”

“Avevo avvertito la padrona qui del ristorante che forse me ne andavo,è stata come una seconda madre per me,sai sono 10 anni che lavoro qui,e poi dammi il tempo di sistemarmi,dove vado a Roma”

La vecchia padrona,stava già da un po’ dietro un angolo a sentirli tutta divertita ed emozionata quando gli si presentò davanti

“Figlia mia il principe azzurro capita solo una volta,non fare la stupida,per me non ci sono problemi,te ne puoi andare anche adesso,è chiaro mi devi venire a trovare almeno una volta l’anno”

Ma come faccio per l’appartementino e”

La vecchia signora non gli fece finire la frase

“Ci penso a tutto io,dai scappa con lui,subito adesso e non pensare”

Claudia prese la sua decisione,seguì un forte abbraccio con la signora che replicò

“Non voglio piangere lo sai che mi da fastidio,dai su su vai”

E Claudia uscì con Massimo,mentre la signora aveva gli occhi lucidi

Si fece accompagnare sotto casa per fare un paio di valige e a Massimo mentre aspettava venne in mente la lettera,che cercò sul cruscotto.

Non c’era più,e si mise a parlare con la macchina

“Hai visto neanche più la lettera,e poi tu mo ariva Claudia neanche una strombettata niente tergicristalli,sei gelosa nì”

Effettivamente da quando uscì dal ristorante la macchina non fece più cose strane

Claudia apre lo sportello

“Ma parlavi da solo faccio st’effetto?”

“Parlavo con Claudia”

“Co chi”

“La machina,l’ho chiamata come te,mo quanno ve chiamo come fate a capì co chi sto a parlà”

Altra esplosione di risate

“Davero hai chiamato la machina Claudia”

“Si,Cla,tu non poi capì quanto tò pensato”

Arrivarono a Roma,nel quartiere Trionfale dove Massì abitava,e sistemarono le poche cose di Claudia.

Seguirono giorni felici,Claudia ebbe un successone con il ristorante in gestione,

le Fasolari  diventarono amiche di famiglia,e addirittura Massimo fece conoscere la Fasolari 2 a Sergio,pare si piacessero pure,ma la Uno non mollava mai la sorella,erano inseparabili,e a Sergio se stava bene a loro stava bene pure a lui.

Passò il tempo,e decisero di sposarsi al comune con pochi invitati,con cenone organizzato in una villetta a Fiumicino organizzato dalle Fasolari.

La Uno era pazzerella,ma a ricevimenti era davvero la numero Uno di nome e di fatto

9-Il Ricevimento

 

Villetta sul mare,ingresso con lampioncini,pareva la classica residenza di un attore scapolo,niente sfarzi esagerati,ma graziosissima ed efficence.

All’interno arredata apposta per i ricevimenti,c’era una ampia sala da pranzo,

dove la ventina di invitati stava a proprio agio conversando tra di loro

Le Fasolari erano impazzite,la due girava per i tavoli in continuazione a sentire se andava tutto bene,mentre la Uno,bè la Uno più che altro si strafogava tutto felice come una pazza,ed a ogni portata diceva la stessa cosa

“Senti che dè st’arrosto,è da campionato mondiale,mai magnato,bono”

Era uno spettacolo vedere la Uno che mangiava,mentre la Due,anche lei una buona forchetta,era un attimino più posata,poi adesso era innamorata di Sergio,che era il primo uomo ad andare d’accordo con Uno,non gli fregava niente di calcio,e parlava tutto il tempo di ricette di cucina con lei,tantè che Due lo rimproverava scherzando

“Ao te sei fidanzato co me o co lei a coso”

E come tutti i ricevimenti a fine cena,che più che cena erano state tre cene,arrivò il discorso di Massimo rivolto ad una solare e raggiante rossa di nome Claudia sua moglie

E mentre Massimo a fine discorso stava baciando la sposa come di consuetudine,con la coda dell’occhio vide nitidamente il signore vestito di nero all’angolo dell’ingresso che mentre usciva furtivo dalla villa rimetteva in tasca il suo tacchino.

Massi si fermò un attimo e Claudia

“Ao te vergogni de baciamme”

“Ma de che,vie qua bella roscia de casa,non te liberi piu de me”

All’esterno Claudia la macchina inizio a strombettare,e sul tavolo apparve una lettera

bianca che iniziò a scriversi da sola

“Vi amerete per sempre”

“A Cla hai visto che cè scritto su sto foglio nì”

“E nfoglio che deve da esse”

Il signore vestito di nero,forse sono io,il narratore,che dice a tutti voi,

cè una Claudia e un Massimo da trovare per tutti,basta aspettare

La macchina?

Ho una Punto bianca che è viva,quando la sto per portare da meccanico si aggiusta da sola.

La lettera?

Bè,non si può spiegare tutto no?

Le Fasolari sono le donne più stupende del mondo,auguro a tutti di incontrare Due,però vi sposate anche Uno vedete voi